Pizza Hut è fallito e si avvia verso la chiusura? Impossibile. Il fenomeno Pizza Hut non mi è estraneo: per raccontarvi ciò che per i quasi-trentenni-tipo-me ha rappresentato e rappresenta, parto con un aneddoto.
Gran parte della mia generazione – diciamo, quella nata negli ultimi dieci anni del Novecento – ha avuto la possibilità di fare i cosiddetti “viaggi all’estero” a partire dai quindici, sedici anni. Anche prima, se i genitori facevano parte della schiera dei “viaggiatori”. Perlopiù, si partiva (e penso che, pandemia di Coronavirus a parte, si parta ancora) con i cosiddetti “enti convenzionati”: scuole di inglese, enti di categoria di appartenenza tipo gilde dei lavoratori che ottengono scontistiche di vario tipo, eccetera. Le mete, essenzialmente quelle anglofone e para-anglofone, adducendo svariate capacità linguistiche da apprendere: una volta terminata la scuola, verso fine giugno o luglio, bande di adolescenti ciancianti partivano per queste Eldorado, dove trovavano flirt, talvolta alcolici e cose “esotiche”. Tra queste cose esotiche – o per meglio dire, tra questi simboli dell’American Dream sbarcato nella vecchia Europa – compariva quasi sempre un album di foto (inviato tramite il vecchio, caro MSN prima e poi postato sui social network come Facebook) dove i suddetti adolescenti erano alle prese con le “pizze da film”, come le chiamavamo allora io e i miei amici, le “pizze americane”: tutti, o quasi tutti, facevano un pranzo o una cena in un locale Pizza Hut e questo pareva renderli fuckin’ Americans, a differenza di noi poveri provinciali quindicenni che dovevamo godere della classica pizza napoletana, all’epoca ben poco figa agli occhi altrui; l’unica cosa che ci accomunava ai nostri amici viaggiatori forse era la presenza della Coca Cola, ma anche la loro sembrava più figa.
Questo breve paragrafetto iniziale è per spiegare come – se non per tutti, almeno per gran parte della mia generazione, una generazione nata “in viaggio” – Pizza Hut sia stata spesso un brand iconico: non per malcelata esterofilia, quanto più di una parafilia alimentare, un guilty pleasure da saziare di tanto in tanto, all’estero, quando nessun gastrofighetto può beccarti. Oltre che, ovviamente, una innegabile macchina da soldi ed un case study di tutto rispetto.
Cos’è Pizza Hut?
Dati alla mano del 2016, Pizza Hut presentava circa 16.000 punti vendita e la presenza in almeno 100 Paesi nel mondo: ciò rendeva il marchio la catena di pizzerie più grande del mondo. Mica poco, anzi, decisamente invidiabile. Un successo costruito in quasi un cinquantennio di storia, partito dal più classico degli American Dream: i fratelli Dan e Frank Carney si fecero prestare dalla madre 600 dollari per aprire una piccola rivendita di pizza a Wichita, in Kansas. Siamo nel 1958 e, acquistata l’attrezzatura per pizza di seconda mano, distribuirono pizza gratis all’inaugurazione per attirare l’attenzione delle persone.
Neanche vent’anni dopo, Pizza Hut annoverava 4mila ristoranti col proprio marchio; un successo clamoroso, tanto che i fratelli – che probabilmente non vedevano l’ora di godersi il frutto della loro geniale idea – vendettero il marchio al gruppo PepsiCo. Non avevano nemmeno cinquant’anni: tutto il tempo di godersi il patrimonio. Frank, in realtà, non resterà fermo e creerà un altro marchio super-famoso: Papa John’s.
Alla fortuna di Pizza Hut ha contribuito sicuramente l’estrema personalizzazione delle pizze proposte, che variavano in grandezza e quantità di ingredienti, oltre agli svariati menu all can you eat: siamo negli anni dei fast food, dove mangiare fuori si sgancia dall’essere un lusso per pochi e diventa un “divertimento” per famiglie. Improvvisamente, dagli anni Sessanta in poi, interi nuclei familiari potevano concedersi un pasto fuori senza spendere un capitale, in ambienti accoglienti che non li facevano sentire degli estranei, dei parvenu. Questo potè accadere – per Pizza Hut, per McDonald’s, per tanti altri marchi – grazie a mirate operazioni di marketing, standardizzazione del prodotto, fidelizzazione dei clienti. Nel caso di Pizza Hut, lo sfruttamento dell’Italian Sounding ha fatto il suo sporco ruolo nel farla diventare la catena di pizzerie più grande del mondo.
Sì, ma: tutti dicono che Pizza Hut e fallito e chiuderà. E’ vero?
Risposta breve: no. La notizia, riportata da moltissimi media italiani e stranieri, è fuorviante. La notizia di base è NPC International, il licenziatario del gruppo Pizza Hut e Wendy’s in USA ha dichiarato bancarotta: la motivazione ufficiale è la crisi generata dalla pandemia di Coronavirus, ma c’è da dire che già dallo scorso anno Pizza Hut aveva annunciato la riconversione di ben 500 punti vendita in “punti di consegna”. Quello che non è chiarito nella stragrande maggioranza degli articoli online è che ha dichiarato bancarotta chiedendo di poter accedere al “famoso” Chapter 11, una speciale legge americana in fatto di economia e gestione dei fallimenti.
Il Chapter 11 è una speciale norma che permette – alle aziende, come ai privati cittadini – di poter garantire il pagamento ai fornitori, di sanare i propri debiti, pagare i dipendenti e ristrutturare la propria azienda. Ciò significa che i circa 40.000 dipendenti impiegati negli USA continueranno a ricevere il loro stipendio e i 1200 locali in franchising resteranno ancora aperti. Piuttosto, c’è da chiedersi se non ci sia da aspettarsi qualche mossa: si parla di ristrutturazione aziendale, no? Non ci stupirebbe una “svolta” nel mondo Pizza Hut: altri grandi marchi della ristorazione fast ci insegnano che il segreto per durare nel tempo è modificarsi ed adattarsi alle “mode” del momento, probabilmente anche Pizza Hut – al netto di una crisi come quella del 2020 – si strutturerà in tal senso.