Il problema della pizza napoletana a Parigi
quantità non vuol dire necessariamente qualità, vi spieghiamo perché
Rubrica di Giuseppe A. D'Angelo — 5 anni fa
A Parigi di pizza napoletana se ne mangia, e pure tanta. E non è certo una novità. Se guardiamo alla recente diffusione della pizza napoletana in Europa, la capitale francese ha giocato sicuramente d’anticipo rispetto a tante altre città. E se fino a pochi anni fa il numero delle pizzerie napoletane era già decisamente consistente, nel giro degli ultimi tre anni è cresciuto in maniera esponenziale.
Ma quantità non vuol dire necessariamente qualità, e questo lo sappiamo bene. E proprio a Parigi l’equazione non è per niente equivalente. C’è un problema principale di fondo: il numero di pizze che si possono davvero definire di buon livello è sicuramente molto ridotto rispetto al numero di pizzerie sul territorio. Ma, attenzione: non stiamo parlando del solito millantato credito, laddove si abusa del termine napoletano senza cognizione di causa. Perché nella maggior parte delle volte le intenzioni sono buone, il know how è presente, e chi dirige la baracca – anche se non ne è proprietario – ha un background di tutto rispetto. Ma non sempre questi fattori si combinano tutti insieme per offrire un prodotto ottimale.
Premesso che naturalmente questa è l’opinione di chi scrive, e non necessariamente riflette quella dei clienti: in tema cibo, ma soprattutto pizza, come sappiamo i gusti sono molto soggettivi. Ma negli ultimi anni ho visitato regolarmente e frequentemente Parigi, provando un discreto numero di pizzerie, e ho avuto anche modo di confrontarmi sia con gli addetti ai lavori che con gli esterni. E ho riscontrato diverse opinioni comuni.
Partiamo dal primo punto: a Parigi i professionisti non mancano. Ci sono decine e decine di pizzaioli che stanno portando avanti un ottimo lavoro, diffondendo un po’ di sana cultura gastronomica napoletana. Il punto è che solo una manciata di questi è partecipe del business come socio. E solo pochi di questi lo sono a un livello tale da avere potere decisionale da gestire il prodotto in totale autonomia. Per quanto mi riguarda, non ho ancora conosciuto nessun pizzaiolo che a Parigi possegga in maniera totale e indipendente la sua attività.
Chiaro, non che sia facile da un punto vista economico, essendo questa una delle città più care d’Europa. Ma il punto è un altro. In altre metropoli europee, altrettanto difficili da questo punto di vista (penso a Londra, naturalmente, ma anche Milano, se volessimo guardare in casa nostra) ho conosciuto titolari singoli di un’attività, o pizzerie avviate grazie allo sforzo di un investimento congiunto tra amici italiani. A Parigi invece il mercato sembrerebbe essere dettato dai locali. Detta in soldoni: se non ti associ a un investitore francese l’attività non puoi aprirtela.
Uso il condizionale e ci tengo a precisare di nuovo che questo non è il frutto di un’approfondita ricerca di mercato, ma di una serie di chiacchierate intraprese con i pizzaioli che il business lo gestiscono sul posto. E non mi interessa analizzare le motivazioni di una simile realtà, quanto le sue conseguenze.
E la conseguenza è: non sempre i pizzaioli sono liberi di esprimersi come vorrebbero. E molti talenti sono condizionati dai dettami dei loro padroni, o soci maggioritari, nella gestione del loro prodotto. Che deve rispondere a una sola logica: fare soldi. E, in una città come Parigi, sono spesso le mode a dettare legge e ad attirare clienti. La gastronomia non fa eccezione a questa regola.
Non è un caso che sia quasi impossibile trovare una pizza napoletana tradizionale e verace in questa città. I dischi di pasta larghi, ben stesi, col cornicione quasi assente sono una realtà pressoché inesistente. Quello che fa gola da queste parti è la pizza che a alcuni piace chiamare “contemporanea”. E che a Parigi ha accentuato una delle sue caratteristiche principali: la conformazione a canotto. Ma non sempre percepito nel modo giusto.
A Parigi le pizze sono abboffate. Non uso un termine napoletano a caso, perché voglio specificare che spesso le dimensioni del cornicione non hanno niente a che vedere con la sua struttura, l’alveolatura, la rotondità o i canali d’aria che tanto ci piace fotografare. Mi sono trovato di fronte a svariate pizze il cui unico scopo sembrasse essere quello di spaventare dei potenziali predatori mostrandosi più grosse di quello che fossero. Ma spesso la forma era totalmente sgraziata, e quando invece all’apparenza si presentava bene, la consistenza del cornicione variava dal leggermente gommoso al totalmente panoso.
Nei casi più gravi mi viene da dare la colpa a una totale assenza di supervisione. Una delle lamentele che ho sentito più spesso è il fatto che in molti casi le pizzerie napoletane sono aperte da investitori esclusivamente del luogo, che non hanno un progetto reale alle spalle ma tutto quello a cui puntano è quello di cavalcare un’onda che sembra essere redditizia. E per farlo, giocano sulla presenza del pizzaiolo partenopeo al forno. Ma, senza una minima cognizione del prodotto, chi assume non è in grado di giudicare il valore del pizzaiolo. Così può andargli bene e ingaggiare un vero talento in grado di auto-formarsi ed evolvere da solo. O andargli molto male e trovarsi uno o più pizzaioli privi di esperienza che, senza ricevere una direzione, non troveranno mai una quadra.
Io ho avuto personalmente modo di assistere a entrambe le realtà. E devo dire che sono stato anche fortunato nel conoscere dei talenti eccezionali a cui è stata data totale fiducia, spesso nell’ambito di gruppi di ristorazione dove il loro incarico principale era quello di dare uniformità al prodotto e occuparsi della selezione del personale. Sia in chiave da dipendente che sotto forma di consulenza. Ma il punto rimane: quando finisce la consulenza, o quando il pizzaiolo esecutivo lascia l’azienda, chi garantisce che il prodotto mantenga lo stesso livello, se i medesimi proprietari non hanno i mezzi per valutarne la bontà?
Un altro punto dolente è la gestione delle materie prime. Che non di solo impasto vive la pizza napoletana. E a me non poche volte è capitato di mangiare pizze che al morso risultassero estremamente piacevoli da masticare, ma che al palato scadevano nella totale indifferenza. E certo, perché un pizzaiolo bravo riesce a fare un ottimo lavoro anche con la farina del supermercato sotto casa. Ma quando mancano i giusti ingredienti, i miracoli non li può fare.
E naturalmente, non devono necessariamente essere tutti di provenienza italiana, che il termine gourmet ce lo hanno regalato i francesi, e sulla pizza ci si può mettere qualsiasi cosa – e lo fanno. Ma è chiaro che per una semplice Margherita non si può prescindere da un buon pomodoro e un ricco fiordilatte. E, se per obbedire al budget imposto il pizzaiolo dovrà ricorrere a dei succedanei di scarsa qualità, non ci si può girare molto attorno.
Giunto al termine di questo discorso sembrerebbe che a Parigi di pizza napoletana buona non se ne veda l’ombra. Assolutamente no, non voleva essere questa la mia conclusione. La realtà è che anzi Parigi possiede un enorme potenziale inespresso, una fucina di talenti che se messi nelle condizioni di lavorare al meglio delle loro possibilità potrebbero far balzare questa città al primo posto del podio delle capitali europee di pizza napoletana. E in un certo senso sarebbe anche giusto, se si considera che uno studio di qualche anno fa ha evidenziato come siano proprio i francesi i maggiori consumatori di pizza nel mondo, in tutte le sue forme.
Eppure, ripeto, di scelte ottime a Parigi non ne mancano. Ma di questo parleremo in un altro articolo…