Mancia ai rider: può un semplice gesto contribuire a un sistema di sfruttamento?
Diversi episodi negli Stati Uniti ci mettono in guardia dagli effetti della gig economy sulla mancia data ai rider di cibo e pizza.
Rubrica di Giuseppe A. D'Angelo — 4 anni fa
Qualche giorno fa è diventato virale un video su TikTok ripreso all’interno di una pizzeria Domino’s di St Petersburg, in Florida. Il video mostra lo sfogo rabbioso di un ragazzo delle consegne, Malik Ambersley, ripreso da un collega. Il motivo? Il ragazzo si lamentava del fatto che aveva aspettato cinque minuti sotto la pioggia per la consegna di una pizza senza poi ricevere neanche una mancia. Il video si conclude con Mark che se la prende con la pila di cartoni, urlando “non voglio più lavorare qui!”.
Ho visto il video tramite un report del sito Inside Edition, che è andato oltre il tentativo di capitalizzare sulla viralità del contenuto per offrire un breve spaccato di quelle che sono le condizioni dei rider in questo periodo di crisi attuale. Una situazione che negli Stati Uniti assume una valenza particolare, e con la quale possiamo fare un parallelo anche a livello europeo (e italiano).
Nell’intervista, fortunatamente scopriamo che Malik non è stato licenziato per questo accesso di rabbia, e anzi i colleghi gli hanno mostrato supporto (dopo averlo ripreso e mandato online il video, si intende). Ma il report continua mostrandoci altre scene di lavoratori della gig economy, che siano rider o autisti, lamentarsi per le bassissime mance ricevute. In un’altra testimonianza un’autista di UberEats si sfoga piangendo, costretto a pagare 3 dollari per un parcheggio, per effettuare una consegna che Uber gli ha pagato 2.50 $, e aver ricevuto solo 1.50 $ di mancia.
Prima di proseguire, occorre un attimo spiegare bene il contesto: negli Stati Uniti il sistema delle mance è così radicato, che per molti lavoratori rappresenta la fonte primaria di sussistenza. In alcuni settori (principalmente ospitalità e ristorazione) le paghe sono sotto la living wage, ovvero la soglia minima di salario considerata necessaria per vivere secondo i costi della vita attuali. In pratica, i lavoratori fanno affidamento non su una retribuzione regolare e costante, ma sulla generosità di chi paga il conto.
Questo ha creato un modello culturale per il quale la mancia è praticamente sentita come obbligatoria, sia da chi la elargisce che da chi la riceve. Se non lasci neanche un dollaro al barista che ti serve il cocktail, non sei guardato per niente bene. Io ho potuto sperimentare in prima persona questo sistema, avendo lavorato come cameriere negli Stati Uniti, e posso garantirlo: in quel settore, senza le mance non si sopravvive (in passato ho scritto un articolo approfondito sul sistema americano delle mance e la mia esperienza in merito).
Non c’è da stupirsi, quindi, che un lavoratore possa avere reazioni così emozionali, soprattutto in questo enorme periodo di crisi e incertezza che stiamo vivendo. E, stando a quanto riportato da Inside Edition, episodi del genere avvengono sempre più spesso. Come se ci fosse una sorta di ribellione sociale nei confronti del sistema delle mance. Ma, molto più probabilmente, la realtà è che la crisi stessa ha fatto rivalutare a molte persone le priorità sui loro budget, e a quanto pare le prime spese da tagliare appaiono proprio essere le magre regalie.
C’è un problema, però: mentre le mance spariscono, si vuole comunque continuare a usufruire degli stessi servizi di comodità che la società moderna ci offre. E questo è tanto più vero ora che la gig economy, che si appoggia a servizi digitali e lavoratori a cottimo, ha preso possesso delle nostre vite. Nel frattempo, però, i costi della vita aumentano, ma i guadagni dei lavoratori diminuiscono.
Un problema che può sembrare tanto lontano da noi, perché appartiene a una cultura diversa dalla nostra, ma che in realtà ci riguarda più di quanto non pensiamo. Nell’ultimo anno, con la pandemia in corso, abbiamo familiarizzato sempre di più con piattaforme di consegna del cibo come Deliveroo, UberEats e Glovo (nonostante questi servizi siano attivi da molti anni nel nostro paese). E il termine “rider” è entrato di prepotenza nel nostro vocabolario,
La crisi causata dal Covid-19 ha significato la perdita di molti posti di lavoro, e di conseguenza la migrazione in massa di numerosi disoccupati verso questa opportunità lavorativa. Molti italiani sono entrati a far parte di una realtà che prima era principalmente appannaggio di studenti e migranti (vissuta anche dal sottoscritto in un periodo di disoccupazione all’estero), approfittando di una condizione vantaggiosa: la possibilità di accedere a un lavoro immediato, che non prevede colloqui o particolari competenze, se non quella di saper portare un motorino o una bici.
Un lavoro che comunque non garantisce delle entrate regolari e costanti, in quanto il numero di consegne effettuabili in un determinato lasso di tempo dipende da troppi fattori (il meteo, la collocazione geografica, il periodo dell’anno, e molte altre variabili). E che nel sistema europeo, perde anche il beneficio aggiunto della mancia per chi consegna. Per lo meno, qualsiasi donazione al fattorino da noi è considerata a discrezione del cliente, non certo un obbligo. Eppure l’increscioso episodio di un paio di anni fa, quando un collettivo di rider di Milano pubblicò la famosa blacklist dei VIP che non lasciavano la mancia, ci ha fatto ricredere sulle loro aspettative.
AssoDelivery all’epoca prese le distanze da quel gesto, sicuramente discutibile. Ma l’associazione di categoria, che unisce diversi operatori del food delivery, non ha certo mostrato di avere a cuore le sorti dei rider: tanto è vero che anche quando ha siglato un nuovo accordo sulle loro condizioni contrattuali, introducendo la paga oraria, in realtà escludeva diverse tutele tipiche dei lavoratori subordinati, come assicurazione, ferie e cassa malattie (ne abbiamo parlato in questo articolo).
In effetti ci troviamo di fronte a una situazione piuttosto complicata. Gli operatori della gig economy da un lato creano lavoro mettendo a disposizione un sistema con requisiti di ingresso molto bassi, accessibili a tutti. Dall’altro lo fanno sfruttando le condizioni di precariato e muovendosi in un’area grigia che non è determinata dalle leggi a tutela dei lavoratori (non allo stato attuale). In questo modo, consentendosi di pagare tariffe non inquadrabili in un contratto nazionale del lavoro. E incoraggiando perciò i rider ad affidarsi a guadagni extra come le mance.
La narrazione dei lavoratori sfruttati sta creando anche una sorta di cambio nella mentalità delle persone, che non mancano di aggiungere uno o due euro alla consegna. Un gesto che viene spesso anche ostentato tronfiamente: è diventato un tormentone lo sfottò di un celebre gruppo Facebook nei confronti di personaggi famosi che dichiarano sui social di illuminare la giornata dei fattorini con le loro monete. Al di là dell’ironia, un gesto così semplice viene avvertito quasi come una sorta di differenziatore tra le classi sociali, tra chi può permettersi di pagare e chi invece deve sperare di ricevere.
Il rischio effettivo è quello che la mentalità della mancia possa diventare predominante anche in altri settori al di fuori delle consegne: empatizzando con il lavoratore che guadagna cifre da fame, il cliente si fa carico della sua sussistenza. Ma questo non gioverebbe certo alla lotta per il miglioramento delle condizioni di retribuzione. E il “sistema americano” potrebbe piano piano penetrare anche da noi: paghe da fame giustificate da un’imposizione non legalizzata delle mance. Un sistema che, però, sta crollando a poco a poco anche nella sua terra d’origine.
Mancia o non mancia, nel dubbio, continuiamo a ordinare d’asporto in tempi di chiusura: che sia tramite app, o direttamente alla nostra pizzeria di fiducia, in qualche modo faremo sì che qualcuno non smetta di lavorare.