Perché un format TV sui camerieri funzionerebbe meglio di MasterChef
Il personale di sala non ha avuto ancora il suo momento di gloria televisiva. Eppure il suo racconto potrebbe emozionare più dei cuochi.
Rubrica di Giuseppe A. D'Angelo — 4 mesi fa
Qualche settimana fa, leggo sul Gambero Rosso, c’è stata una piccola polemica partita da un’affermazione di Fabrizio Ievolella, CEO della casa di produzione televisiva Banijay Italia, responsabile della creazione di programmi come MasterChef e Dinner Club. Alla domanda “come mai fino adesso ci si è concentrati solo sui cuochi e non è ancora stato prodotto un format televisivo sul personale di sala”, Ievolella ha risposto, in sintesi, che il ruolo del cameriere è principalmente pratico, ma non creativo; che veicola solo il messaggio dello chef e non ha quindi il potenziale per diventare – cito – una “figura aspirazionale”.
A tale affermazione, sempre sul Gambero, è seguita la controrisposta di Michele Armano, docente al Master per la Comunicazione Multimediale dell’Enogastronomia all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. Armano difende la figura del professionista di sala, ne elenca tutte le competenze, e ritiene anacronistica l’affermazione di Ievolella che rischia di affossare ulteriormente un mestiere che oggi come oggi non sembra attirare molto i desideri dei giovani.
Poteva finire lì, con questa risposta. Ma quando le cose mi toccano da vicino mi riesce difficile non maturare ulteriori riflessioni da condividere. Soprattutto quando ripenso alla mia esperienza come cameriere in un ristorante – strutturato con la gerarchia alla Escoffier della brigata di cucina e di sala – che, seppur breve, mi ha segnato indelebilmente nel mio percorso professionale nel settore dell’ospitalità. E anche a quando ripenso alla mia esperienza, più lunga, di cliente di pizzeria. Ma facciamo un passo alla volta.
Innanzitutto, parto da un’ipotesi: non sono chiaramente nella testa di Ievolella, ma ho il vago sospetto che le sue parole come produttore televisivo avessero un altro significato. E cioè che, dal punto di vista dello storytelling, il personaggio del cameriere possa difficilmente emozionare in televisione. Se siamo abituati alla narrazione eroica del cuoco è perché attorno alla professione abbiamo creato questo mito del genio creativo che plasma la materia prima e ne trae fuori capolavori, come un pittore rinascimentale (il paragone è spesso tirato in ballo). Su queste figure così centrali si costruiscono i drammi, le battaglie, i conflitti interiori di uomini e donne di cui non ci vengono risparmiati anche i trascorsi di vita, possibilmente disagiati, per farci avventurare in un vero e proprio viaggio dell’eroe. Da un punto di vista del contenuto, ogni racconto emozionale è una miniera d’oro per il piccolo schermo.
Quello che mi lascia perplesso, però, è il formato del racconto da un punto di vista pratico. Se nella vita reale dovessimo seguire uno chef in una sua giornata tipo, sarebbe probabilmente la cosa più noiosa alla quale ci toccherebbe assistere. Escludendo la parte concitata del servizio, per la gran parte del tempo lo vedremmo chiuso tra quattro mura a concepire e sperimentare piatti, con interazioni poco significative con il resto della sala. D’altronde, come qualsiasi mestiere creativo, quello del cuoco si svolge principalmente in solitudine. Ed è per questo motivo che una trasmissione televisiva come MasterChef deve ovviare a questa noia mortale con un montaggio serrato, dialoghi urlati, musiche di tensione, silenzi di suspense, primi piani di pathos. Altrimenti si cambia canale dopo trenta secondi.
Se si dovesse ambientare un format televisivo in sala, di tutto questo non ci sarebbe bisogno. Perché basterebbe seguire anche solo un singolo cameriere, costantemente, telecamera in spalla, nelle sue ore di servizio per rendere la trasmissione eccitante. E non si faccia l’errore di pensare che lo sarebbe solo in contesti ad alto dinamismo, come un ristorante per famiglie o una trattoria per camionisti. Al contrario, la struttura gerarchica in cui viene ripartita la sala – come la cucina – di un ristorante di livello ci parla di un sistema interconnesso, rapido ed efficiente, che coinvolge diverse persone e che quindi è più a rischio di generare caos se parti di un meccanismo si inceppano. Con conseguenze emozionanti per la sceneggiatura.
Se Ievolella dovesse davvero pensare che questo da solo non basterebbe a tenere in piedi un programma, perché tanto il cameriere non ha molto da raccontare, allora lo inviterei a guardare The Bear. La serie televisiva su uno chef che cerca di rimettere in piedi un sandwich shop e trasformarlo in un ristorante di classe è la ricostruzione fedele e dannatamente realistica dello stato di tensione continua che alimenta un intero servizio tra cucina e sala. Nel guardare i lunghi piani sequenza frenetici ho percepito più volte il senso di immedesimazione, ricordandomi esattamente tutte le emozioni che provavo nel navigare i due ambienti per otto ore di fila, tra stress e picchi di adrenalina.
La serie guarda alla ristorazione a tutto tondo. Ma se dovessimo prendere spunto sullo storytelling esclusivamente dal punto di vista del cameriere, allora il mio episodio preferito è senza dubbio The Forks, in cui vediamo il personaggio di Richie eseguire un training in un ristorante Michelin. In questo episodio i cuochi scompaiono, e tutta l’attenzione è dedicata al lavoro del personale di sala. Da arrogante, disordinato e incompetente gestore di un localaccio, Richie impara le basi di un servizio elegante e rigoroso: la gestione dei tavoli, la comunicazione tra i camerieri, il rispetto dei ruoli, fino al punto di svolta in cui desidera essere in prima linea per portare a una cliente una sorpresa speciale. Secondo la filosofia per cui “ogni sera rendi felice qualcuno”. Se non è grande televisione questa.

Ora, scrivere di tutto questo su un sito di pizza vent’anni fa non avrebbe avuto senso: pensando al cameriere in pizzeria l’unica immagine che ci saremmo fatti è quella di una persona che scrive frettolosamente le pizze da noi ordinate su un taccuino. Ma i tempi sono cambiati, e la pizzeria moderna non ha più niente a che vedere con quel ritrovo di quartiere dove arrivi, saluti il pizzaiolo per nome, e nel giro di mezz’ora te ne sei già anche andato. Oggigiorno, di fronte a una nuova apertura, è molto più probabile che ci si imbatta in un locale che punti su un’atmosfera patinata e scicchettosa da ristorante di alta classe per impressionare il cliente, con tanto di carta dei vini da far sfigurare la cantina di un enologo della Provenza. Un trend che oggi riscontriamo in ogni parte del mondo, tanto è vero che il dibattito se una pizzeria possa ottenere o meno le stelle Michelin è più vivo che mai. E che, prima ancora che si concretizzasse in Italia, aveva già messo radici ben profonde proprio nel paese che ha dato i natali a Auguste Escoffier e al suo concetto di brigata all’interno di un ristorante: la Francia.
Mi sembra ieri quando per la prima volta mi recai alla pizzeria Bijou di Montmartre, a Parigi, dove operava un talentuosissimo Gennaro Nasti. E, per la prima volta, mi ero imbattuto in un concept totalmente innovativo: una pizzeria che non si presentava come pizzeria, nonostante il forno in bella vista e nessun altro piatto nel menù. Un locale di appena trenta posti, luci soffuse, le tenue noti jazz ad accarezzare un’atmosfera rilassata e tranquilla. E una cameriera in grado di elencarmi ogni singola ricetta, gli ingredienti che la componevano, il suo significato per lo chef e di consigliarmi anche quella più indicata ai miei gusti di fronte all’indecisione. Senza fretta, senza voltare la testa verso la sala per assicurarsi di non essere richiesta altrove, l’intera attenzione dedicata al sottoscritto. A distanza di tanti anni, credo che solo in pochissime altre occasioni io abbia ricevuto un servizio di pari livello.
Il concept di Gennaro all’epoca era chiaro, ovvero offrire in una pizzeria lo stesso servizio di un ristorante stellato. D’altronde il pizzaiolo mi espresse a chiare lettere la sua filosofia in un’altra chiacchierata: “perché io che trasformo la materia prima da zero non vengo considerato al pari di uno chef che compra invece ingredienti già pronti”? E questa filosofia si doveva riflettere anche sul servizio. Gennaro centrò in pieno il suo format, che si inseriva bene in una città dove la pizza napoletana veniva regolarmente sfornata all’interno di locali eleganti e dal servizio curato (anche se, all’epoca, con risultati troppo altalenanti).
In Italia lo stesso concetto sarebbe arrivato un paio d’anni dopo, con Milano, senza troppe sorprese, a fare da capofila. Anche se in realtà non si è mai guardato tanto all’ambiente intimo e raccolto che caratterizzava un piccolo locale come Bijou, quanto piuttosto a grosse strutture finemente arredate, dall’offerta ampia e strutturata. Strutture così sono oggi all’ordine del giorno, da nord a sud, ma non sempre sono supportate da un personale di sala addestrato a dovere. Mi duole dire che più volte le mie esperienze in pizzeria sono state danneggiate, in parte o del tutto, da un servizio non altezza. Dalla pizzeria che vanta l’attenzione ai prodotti del territorio, ma poi il cameriere non è in grado di spiegarti la differenza tra le diverse varietà di pomodoro che compongono la carta delle Margherite; a una gestione totalmente confusionaria delle portate, con piatti che tardano ad arrivare per poi presentarsi in sequenze confuse, e magari anche con ordini sbagliati.
Certo, non aspiro necessariamente ai livelli di servizio che incontrai da Bijou all’epoca. Ma non sono competenze da sottovalutare: un buon cameriere può fare la differenza tra una serata perfetta e una disastrosa, anche in pizzeria. Soprattutto in un’epoca in cui abbiamo quasi perso il contatto con la figura del pizzaiolo, che si è sempre distinto dal cuoco proprio per essere presente e visibile in sala; ma che in progetti di ristorazione che diventano via via più grandi e ambiziosi viene giocoforza confinato in una zona a parte del ristorante, quando non addirittura nella cucina. Il nostro contatto privilegiato rimane quindi quella persona che non si limita a segnare gli ordini su un tablet, ma presta attenzione alle nostre richieste, anticipa i nostri bisogni, è in grado di consigliarci su un percorso che si adatta alle nostre esigenze; che magari è in grado di farci sorridere con una battutina, o che è pronta a rimediare con rapidità a un errore o un inconveniente prendendosene carico. Tutto questo è riassunto alla perfezione proprio dal già citato episodio di The Bear dove, neanche a farlo apposta, la sorpresa di Richie è proprio a tema pizza (ma niente spoiler, guardatevi la serie).
Quel professionista che secondo Ievolella non ha niente da raccontare, è quello capace di giostrare molte più competenze di quante non siano richieste a uno chef, che deve fare una sola cosa, e farla bene. Il cameriere, in perpetuo contatto col pubblico, esegue invece una continua azione di trasformismo per adattarsi all’infinita gamma di tipi umani che compone la clientela di un ristorante, permettendo così di regalarci ogni volta una storia diversa. E la sala sarebbe il teatro di posa perfetto per poter narrare queste storie in TV. Se i produttori televisivi spostassero il focus per abbandonare la figura ormai esasperata dello chef e concentrarsi sull’altra faccia della ristorazione, forse cominceremmo a guardare di più ai camerieri come “figure aspirazionali”. E, chissà, magari un nuovo format potrebbe partire proprio dalla pizzeria, raccontandoci le storie di crescita di tanti altri camerieri come Richie.