”Non è pizza, è pane” è una sentenza stupida: la pizza è pane.
Uno sfogo contro una delle esclamazioni più inutili sulla pizza. Ma fatto con criterio.
Rubrica di Giuseppe A. D'Angelo — 3 settimane fa
Recentemente ho letto in un gruppo Facebook americano sulla pizza il post di un italiano che, parlando dei trend della pizza contemporanea nel nostro paese, si è chiesto:
La nuova pizza italiana è ancora pizza o sta diventando pane?
Negli ultimi anni, un nuovo tipo di pizza ha preso piede in Italia. Più leggera, più alta, più ariosa, spesso definita moderna o contemporanea. Bella da vedere, elegante e chiaramente frutto di studio e precisione. Eppure, per molti, sembra più vicina al pane artigianale che alla pizza con cui siamo cresciuti. Stiamo ancora parlando di pizza o di qualcos’altro?
Questo post ha scatenato in me una riflessione che, di base, si può riassumere in un singolo concetto: che la cosa non ha importanza, perché, di fatto, la pizza è pane. Ma sento già le levate di scudi dei pizzaioli della tradizione (i fornai, invece, secondo me se ne fregano altamente di questa distinzione). Per cui lasciatemi spiegare.
Se dobbiamo ridurre il tutto alla sua essenza, la pizza altro non è che l’insieme di quattro ingredienti fondamentali: farina, acqua, sale e lievito. Gli stessi del pane. Basta questo a definire i due prodotti uguali? Ovviamente no: anche i grissini si fanno esattamente con gli stessi quattro ingredienti, ma non ci sogneremmo mai di definirli né l’una, né l’altro.
A differenza dei grissini, però, la pizza appartiene a una famiglia di prodotti da forno ben precisa: quella delle schiacciate. Nella lingua inglese, con la praticità che la contraddistingue, si è dato un termine molto piu preciso a questa tipologia di prodotti: flatbread, letteralmente “pane piatto”. Notate la perfezione nella composizione di questa parola. La seconda parte, bread, ci dice chiaramente in quale categoria dobbiamo infiliare il prodotto. La prima parte, flat, ci rivela invece due cose: la stesura e conformazione del pane, e il fatto che molto probabilmente non avrà lievito.
La maggior parte dei flatbread di tutto il mondo, dal roti al chapati, dalla tortilla all’arepa, è infatti senza lievito. Ma non è una regola assoluta, e ci sono piattumi insospettabili come la pita greca o il pane carasau sardo che di lievito ne contengono piccole dosi. Anche la parola “piatto” è molto relativa: molte di queste forme di pane in realtà hanno uno spessore di qualche centimetro. E in effetti, nella lingua italiana, la parola flatbread è a mio avviso resa molto più precisamente con il termine “pane basso”. Dove basso non indica uno spessore specifico (come la parola “piatto” lascerebbe intendere), ma funge in contrapposizione al concetto di pane alto a cui associamo l’immagine del classico pane da tavola (nelle sue infinite versioni). E quindi la tigella modenese, la schiacciata toscana e la nostra amata pizza, in tutte le sue declinazioni, rientrano perfettamente in questa categoria.
“Sì, vabbè, ma quindi mo’ ci vorresti convincere che pizza e pane siano la stessa cosa”? Be’, non proprio: sarei un fesso a scambiare una bella, morbida e pieghevole pizza napoletana con le gobbe del pane di Matera. Ma quella che voglio porvi, invece, è una domanda: siamo sicuri che sappiamo definire bene cosa sia pizza e cosa sia pane? Dove finisce l’una e dove inizia l’altro?
Basterebbe guardare semplicemente alle numerose varietà di pizza presenti in Italia per andare in confusione. Prendiamone tre tipologie tra le più famose e, soprattutto, tra le più differenti tra di loro: la pizza napoletana, la pizza romana e la pizza al trancio milanese. La prima, spesso definita una “gomma” da chi non è abituato alla presenza del cornicione. La seconda, volgarmente chiamata scrocchiarella, anche se molti romani non sarebbero d’accordo. E la terza, dall’estetica molto simile a quella di una pizza Buitoni surgelata degli anni ’90.
Per quanto io adori tutte e tre le tipologie di pizze (ma così come qualsiasi tipo di pizza, se fatta bene) ne ho voluto sottolineare i cosiddetti “difetti” visti da un occhio esterno per evidenziare che si tratta di tre prodotti completamente diversi tra di loro. Eppure, nonostante possano non riscontrare il gusto di chi non è abituato a mangiarle, siamo tutti d’accordo nel definirle “pizza”. Perlomeno, storicamente parlando, hanno acquisito quel nome: poi, che qualcuno dica, “quella per me non è pizza” è un’altra cosa. Ma sicuramente nessuno direbbe “è pane”. Quindi, dove tracciamo il confine tra pizza e pane, se tre prodotti così diversi tra di loro vengono inseriti nella stessa categoria?
Qualcuno potrebbe dire: “è facile: sono tonde, quindi sono pizze”. Oppure: “chiaro: le si ricopre con ingredienti e le si inforna, quindi sono pizze”. Bene. Ma allora come spieghiamo la pizza in teglia? O la pizza alla pala? Una è rettangolare, l’altra viene infornata sempre senza ingredienti prima di essere condita o addirittura farcita. Nel mondo romano si è dovuto addirittura trovare un ulteriore marcatore di definizione tra pizza bianca, vergine di topping e fatta per essere tagliata in due e farcita; e pizza rossa, condita appunto con del pomodoro prima della cottura in forno. Nonostante siano di base lo stesso prodotto.
Neanche la definizione del luogo di produzione ci aiuta nella distinzione tra le due categorie: sarebbe facile dire “il pane si fa nei panifici, le pizze si fanno in pizzeria”. In realtà questa separazione non è mai esistita. La pizza, proprio perché derivato del pane, si è sempre prodotta nei forni – intesi come laboratori di produzione – prima che questi si specializzassero in pizzerie. Tanto è vero che questo processo di divisone tra le due categorie commerciali che è avvenuto a Napoli tra il ‘600 e il ‘700 si è ripetuto pari pari con l’emigrazione negli Stati Uniti: i primi negozi a vendere pizza nelle città americane non erano pizzerie, bensì bakeries, ovvero panifici (o, tradotto meglio, “forni”, perché vi si producono anche altri lievitati). Solo successivamente, vista la popolarità del prodotto tra le comunità di italiani, alcuni di questi panifici si sono verticalizzati in pizzerie.
Sicuramente il momento più alto di confusione nella storia della pizza si è generato con la nascita del movimento della pizza contemporanea (soprattutto nella scuola casertana) che ha introdotto negli impasti proprio quei processi tipici della panificazione: i prefermenti come la biga, il poolish, lo sponge e chi più ne ha più ne metta. A un certo punto si è sentita la necessità di dividere il processo di impasto con i due termini “diretto” e “indiretto” per semplificare il concetto che si facesse uso di prefermenti o meno. E, per una serie di motivi che non stiamo qui a elencare ora, si è alimentata la convinzione che le grosse alveolature tipiche della pizza a canotto siano determinate solo dall’uso dei prefermenti.
Ed è soprattutto col trend del canotto che si è sviluppato quello che è il tormentone più ricorrente tra una certa fetta di pubblico legata alla tradizione (qualsiasi cosa questa voglia dire): di fronte a cornicioni sempre più paffuti e pizze di ridotte dimensioni l’esclamazione più comune è “quella non è pizza, è pane”. Io però a sentire affermazioni di questo tipo mi irrito: per lo stesso motivo per cui non scambierei un pane di Matera per una pizza napoletana, con che coraggio si può paragonare il cornicione soffice, arioso e aromatico di una bella pizza casertana con la crosta dura, ruvida e croccante di una forma di pane cafone?

La situazione si è complicata ulteriormente quando i pizzaioli hanno cominciato a ricercare a tutti i costi l’effetto crunch sui loro bordi, cercando di avvicinarsi di più al morso di una focaccia. Nonostante ciò, parliamo sempre di una croccantezza di superficie, una friabilità velata, che niente ha a che vedere con quella più insistente del pane dei fornai. Anche se includiamo quelli artigianali, che pure si divertono con le alveolature spaziose e i tunnel nella mollica. Eppure molti sono così sicuri nello stabilire che no, non è pizza, è pane.
Ma allora il panuozzo di Gragnano che cos’è? Se qualcuno lo vedesse senza sapere di che si tratta non avrebbe problemi a definirlo una ciabatta un po’ più stretta e allungata. Ma il processo di produzione dell’impasto è esattamente lo stesso di quello della pizza, ed è solo la forma del prodotto finale che cambia. E vogliamo parlare del pane-pizza? Sono certo che molti di voi hanno familiarità con quelle focacce soffici, oleose, salate, dal colore giallo paglierino che vendono molti panifici: uno sfizio irresistibile per quelli che appunto vogliono ricordare la soddisfazione di addentare un bel cornicione di pizza morbido, non certo croccante.
È vero che negli ultimi anni ci sono sempre più pizzaioli che familiarizzano con i processi di panificazione – inclusa anche l’adozione di farine alternative – per ottenere effetti che si discostano dalla pizza classica. Dobbiamo però anche evitare di avere una visione napoletano-centrica della pizza e ricordarci che certe consistenze che per i partenopei sono nuove, non lo sono altrove. Non basta che un cornicione diventi un po’ più ruvido o croccante per definirlo pane. Altrimenti dovremmo concordare sul fatto che una pizza romana poco pieghevole, che tende a spaccarsi, sia pane a sua volta.
La realtà è che nella nostra visione limitata del mondo abbiamo bisogno a tutti i costi di incasellare ciò che non conosciamo in categorie altre a noi familiari. È esattamente quello che succede quando gli americani definiscono la pizza napoletana “a soup“, una zuppa, perché sono abituati a una salsa di pomodoro più concentrata e densa, rispetto a quella liquida della pizza verace. Ma come potremmo mai accettare che il nostro prodotto alimentare d’eccellenza possa essere paragonato a una ciotola d’acqua salata?
Lo stesso paragone improprio lo facciamo se definiamo una pizza diversa da quella a cui siamo abituati come “pane”. Un panettiere forse avrebbe da ridire sull’accostamento. Così come il pizzaiolo sentirebbe svilito il suo lavoro. Eppure, la sostanza delle cose, è di base sempre quella: farina, acqua, sale e lievito. Quello che cambiano sono i processi, le tecniche e le professioni. Ma che queste due possano incontrarsi e apprendere l’una dall’altra è assolutamente naturale: la pizza è pizza, ma è figlia del pane, ed è pane a sua volta. Sottolinearlo non solo vi rende degli snob pretenziosi, ma ci fate anche la figura degli ignoranti.