Cosa sta succedendo alle pizzerie in Europa ai tempi del lockdown?
Anche gli altri paesi europei sono in emergenza, abbiamo chiesto ad un po' di pizzaioli sparsi nel Vecchio Continente
Rubrica di Giuseppe A. D'Angelo — 4 anni fa
In Italia la situazione Covid-19 sta causando un danno enorme al settore della ristorazione, in particolar modo a quello delle pizzerie, che non riescono a far fronte alle nuove chiusure imposte dal secondo lockdown. Un lockdown che, al momento in cui pubblichiamo, ha coinvolto quasi tutta la penisola tra zone rosse e arancioni. Sono davvero poche le regioni in cui i ristoranti possono continuare ad essere aperti (fermo restando lo stop nazionale alle operazioni al tavolo delle 18).
Al che mi sono chiesto: ma quale sarà la situazione nel resto d’Europa? Quali sono le misure restrittive nelle varie nazioni, e come impattano il business delle pizzerie (e in generale il settore ristorazione)? Che influenza hanno le diversi abitudini alimentari, e i prezzi paragonati ai costi di gestione? E quali pratiche assistenzialiste stanno adottando i governi per aiutare le attività ristorative a non fallire?
Ho contattato quindi tanti dei miei amici pizzaioli o titolari di pizzerie sparsi in giro per l’Europa, per cercare di avere un quadro della situazione nei vari paesi. È stato interessante notare come alcuni elementi ricorrano sempre, come ad esempio la necessità di doversi affidare alle piattaforme per la consegna a domicilio a fronte di una perdita di guadagno in commissioni elevate. Ma anche come altri fattori non siano così lineari come ci si potrebbe aspettare: non sempre, infatti, commerciare nelle metropoli ad alta densità è un vantaggio rispetto ai piccoli centri, ma non è vero neanche il contrario.
Per questo motivo ho preferito non avere la presunzione di delineare un’immagine riassuntiva dei vari paesi, consapevole che le esperienze individuali sono differenti. Ho voluto quindi riportare la diretta testimonianza degli amici che mi hanno concesso il loro tempo, alcuni dei quali hanno anche espresso il loro punto di vista sulla situazione attuale e su cosa significhi essere commercianti in tempi così particolari.
Nota: le testimonianze sono state raccolte nel periodo compreso tra il 1 e il 16 novembre. I riferimenti rispetto alle azioni attuate dai governi fanno quindi riferimento alla data della testimonianza, e potrebbero essere già obsolete all’atto della pubblicazione.
Regno Unito
Pasquale Chionchio, Santa Maria, Londra: “Già prima del lockdown avevamo parecchie restrizioni: tavoli di massimo sei persone e solo congiunti, potevamo stare aperti solo fino alle 22… Gli incassi calavano a vista d’occhio. Ora col lockdown potremo fare solo asporto e delivery. Ridurremo le ore dello staff ma non abbiamo intenzione di licenziare nessuno. Fortunatamente il furlough scheme (l’equivalente della cassa integrazione nostrana Ndr) si è allungato, ma è un aiuto che non ci permette di far fronte a tutte le spese. L’asporto e il delivery non sono sufficienti, riescono a mantenere appena le sedi residenziali, ma quella centrale si trova ora in una zona di Londra che è morta, visto che si sosteneva tutto con gli uffici (infatti quella sede era già in perdita da parecchi mesi a causa dello smart working). Tutto sommato noi siamo privilegiati, perché il prodotto è forte e continua a vendere, e anche se non facciamo profitti riusciamo per lo meno ad andare in pareggio. Ma non si sa fino a quando riusciremo a sostenerci”.
Nicola Apicella, Oi Vita, Londra: “La situazione qui è drammatica per i ristoranti che sono in centro e per quelli che lavoravano molto con gli uffici. Noi essendo in una zona residenziale, quindi già molto improntata sull’asporto, stiamo riuscendo a restare a galla grazie anche ai vari aiuti concreti del governo (VAT ridotta al 5%). Il numero di pizze è calato di poco fortunatamente nel primo lockdown, e le persone sceglievano il take away molto volentieri al posto del delivery, il che per noi significava risparmiare sulle commissioni delle piattaforme. Purtroppo i prezzi dei prodotti sono aumentati del 20%: ciò mi ha costretto a fare un menù molto ristretto per contenere i costi del food. Al termine del primo lockdown, avevamo restrizioni sul numero di posti a sedere in sala: con la gente che finalmente poteva di nuovo uscire si lavorava sia d’asporto, sia con i numeri in sala anche se avendo pochi posti rifiutavamo tanta gente. Feci anche un’altro cambio di menù per la prima riapertura inserendo di nuovo qualche prodotto in più; il terzo cambio l’ho fatto in questo lockdown sempre in base alle esigenze cercando di tagliare tutti i costi possibili e gestendo le ore di lavoro dello staff al meglio possibile. Il primo weekend non è andato male, ma se devo dirti la verità sono un po’ preoccupato perché non si sa quando si tornerà alla normalità“.
Antonio Pellone, Pizzeria Pellone, Londra: “Nel primo lockdown le piattaforme di delivery hanno allargato il loro raggio d’azione, e questo mi ha permesso di ottenere più clienti. Però se da un lato facevo più pizze, dall’altro perdevo tantissimo con le commisioni. Inoltre con il furlough scheme ho perso il personale di sala, e ho avuto difficoltà a ricrearlo alla riapertura. Sono riuscito però a ottenere nuovi clienti che sono venuti a mangiare la pizza al ristorante. In questo secondo lockdown sto cercando di mantenere tutto lo staff per evitare le perdite della prima volta, ed è molto faticoso. Si lavora molto ma si guadagna di meno“.
Silvestro Morlando, Sud Italia, Londra: “Dopo il primo lockdown ero ritornato alla carica, firmando anche un nuovo contratto per una location nuova che però sarà ferma fino a gennaio. Il sabato al mercato di Spitaldields facevamo ottimi numeri, adesso col nuovo lockdown il sabato si lavora di meno a Spitalfields, ma gli ordini in delivery arrivano più di quanto mi aspettassi. In un altro mercato dove sono operativo abbiamo lavorato davvero bene, sono felice di questo, perché conferma la forza del mio format di food truck, che mi permette di spostarmi in un’altra location qualora la situazione fosse migliore. Mi dispiace invece per le attività stabili che rischiano la chiusura, perché io stesso mi rendo conto di cosa significa rischiare di perdere un’attività che porti avanti con passione, e sulla quale hai investito tutta una vita con tanti sacrifici“.
Claudio Miccio, Kotch, Londra: “Credo che la situazione attuale influisca sul business di una pizzeria a seconda del suo prodotto. Con una pizzeria meno artigianale, e un prodotto economico che fa grossi numeri, delivery e asporto aiutano a mantenere il guadagno (anche se le commissioni delle piattaforme di delivery sono elevate). Per questo motivo, se invece si punta sulla qualità, non credo che ne valga la pena perché i margini di profitto non sono molto elevati”.
Vito Marino, Rust Bucket Pizza Co., Londra: “Nella pizzeria all’interno del mercato eravamo sempre troppo impegnati con la clientela per fare anche delivery e asporto. Ma in preparazione della chiusura abbiamo incrementato il personale per far fronte alla nuova esigenza. In questo modo siamo riusciti a mantenere gli stessi numeri che avevamo prima del Covid. In termini di ordini abbiamo avuto un leggero incremento, anche se il profitto è un po’ calato. I nostri clienti però sono comunque felici perché possono sempre ottenere una pizza fresca. Abbiamo anche un po’ di tempo in più e ne stiamo approfittando per investire sul branding e il marketing. Anche il nostro laboratorio, che utilizzavamo solo per la produzione dell’impasto, lo stiamo riconvertendo piano piano per la pizza da asporto. Io penso che il modello di business debba basarsi principalmente sulle persone, e di quello che il lavoro del tuo dipendente ti può portare in termini di guadagni. Da questo punto di vista la stiamo vivendo molto serenamente, e riusciamo anche a investire un po’ sull’equipaggiamento.
Filippo Rosato, Purezza, Brighton: “Una volta che il governo ha annunciato il lockdown, i giorni prima dell’effettiva chiusura siamo stati affollatissimi. Successivamente il lavoro è calato tantissimo, con poco delivery. Gli incassi ci permettono di coprire lo stipendio dello staff. Con gli aiuti del governo il business riesce a procedere, anche se con rendimento minimo. Considera che il furlough scheme, che copre l’80% degli stipendi, è stato prolungato fino a marzo, il che la dice lunga sulla situazione che ci attende. Abbiamo dei dubbi, infatti, che il lockdown termini il 2 dicembre come annunciato. Nonostante tutto non siamo particolarmente preoccupati, durante la fase di riapertura avevamo aperto anche due sedi nuove, e abbiamo in programma un’ulteriore espansione quando tutto questo terminerà”.
Maurizio Eusebi, Fatto a Mano, Brighton: “Il secondo lockdown è più light, la gente può andare in giro ma non può entrare nelle attività. Noi continuiamo a lavorare con takeaway e delivery, anche se comunque il numero di ordini è calato: sicuramente le piattaforme ti danno visibilità, ma si fanno anche pagare tanto, quindi non so quanto ne valga la pena. Con il furlough scheme però il dipendente riceve l’80% del salario dallo stato, per lo meno questo alleggerisce l’onere dei titolari”.
Giacomo Guido, Stile Napoletano, Chester: “La dichiarazione della mia area come zona a rischio aveva portato a un calo di clienti. Poi comunque anche l’imposizione della chiusura alle 22 ha fatto il suo, anche se la differenza si è vista maggiormente nel weekend rispetto al resto della settimana. Noi comunque rispetto ad altri locali siamo riusciti a lavorare un po’ di più. Ora vedremo come sarà col delivery. Intanto c’è di buono che in quest’occasione il governo ha impostato il furlough scheme all’80%, e questo ti copre i dipendenti anche se li fai venire a lavorare: nel caso dovessi fargli fare meno ore, lo stato gli darà comunque il conguaglio fino all’80%”.
Adam Atkins, Peddling Pizza, St Albans: “Avendo uno stand di cibo al mercato sono stato molto fortunato, perché in questo secondo lockdown la mia attività è stata categorizzata tra quelle essenziali dal governo, e quindi posso lavorare. Durante il primo lockdown, però, quando era tutto chiuso, ho preparato le pizze nel cortile della mia casa, e le ho vendute in asporto e consegna tramite un servizio di prenotazione online. La risposta è stata molto positiva, perché fortunatamente il mio brand è molto forte qui. Per cui quando sono tornato al mercato ho deciso di sfruttare lo stesso procedimento, che mi permette di realizzare l’impasto che mi serve in base alle prenotazioni, e allo stesso tempo mantenere il distanziamento tra le persone che vengono al mercato. In questo modo lavoro e vendo anche meglio di prima“.
Marco Fuso, consulente: “Il mio business di consulenze ha subito una bella battuta d’arresto: avevo novembre tutto prenotato, ma adesso non è possibile con le nuove restrizioni. In fase di iscrizione avevo promesso di rimborsare tutto se ci fossero stati problemi causa Covid, e così ho fatto. Ma l’esperienza del primo lockdown mi ha insegnato come reagire: ritornerò a fare le dirette online, che mi hanno portato tantissimi clienti”.
Francia
Gennaro Nasti, Bijou, Parigi: “Il problema principale è che da quando hanno annunciato il secondo lockdown, molta gente che se lo poteva permettere ha abbandonato Parigi per rifugiarsi nelle case di campagna o al sud e lavorare in remoto da là. Per cui abbiamo perso moltissimi clienti. Io nonostante tutto continuo a lavorare bene con l’asporto e il delivery, l’esperienza del primo lockdown ha aiutato. Ma così anche tutti gli altri, per cui ora ci sono tantissime persone che offrono servizio di delivery e troppi rider che girano per la città. Succede quindi spesso che il nostro prodotto non arriva come dovrebbe e ricevo molte lamentele. Secondo me la soluzione migliore sarebbe quella di adottare il proprio servizio a domicilio con un ragazzo interno che faccia consegne per coprire almeno la propria zona”.
Giuseppe Cutraro, Peppe Pizzeria, Parigi: “Nel primo lockdown non ho accusato il colpo, grazie agli aiuti dello stato e il blocco sui pagamenti. Adesso invece mi hanno messo i dipendenti in sussidio, ma altre spese restano a mio carico, anche se la decisione potrebbe cambiare se decidono di passare a un lockdown totale come quello primaverile. Questa volta però il danno economico è stato maggiore, perché appena è stata annunciata la chiusura la gente è fuggita da Parigi e si è spostata in campagna o al sud. Sto ripiegando sul delivery, nonostante avessi deciso di non farlo perché non si allinea col mio prodotto. Ma mi sta causando non pochi problemi perché ricevo molte lamentele per il disservizio della piattaforma (dovuto sicuramente anche all’aumento della richiesta). Tutto sommato me la cavo, non guadagno ma riesco a tenermi a galla, e la popolarità che mi sono guadagnato negli ultimi mesi mi fa pensare che quando tutto sarà finito i clienti torneranno da me. La decisione di non aver voluto adattare il mio menù all’asporto, perché voglio offrire un prodotto sempre di qualità, ha pagato”.
Emanuele Contardi, Ragazzi, Parigi: “Noi lavoriamo in due sedi, una in periferia e un’altra al centro, e si vede la differenza. In periferia il locale fa pochi ordini, mentre al centro, anche se il business è calato rispetto a prima, si lavora parecchio (ma le spese sono maggiori). I servizi di food delivery ci aiutano parecchio, anche se le commissioni sono alte, e il servizio non sempre è efficiente in termini di tempistiche stroppo strette. Facciamo turni molto serrati per tenere testa al numero di ordini. Comunque dipende anche dal quartiere, in alcuni va di più l’asporto, in altri la consegna a domicilio. Comunque la volontà di intraprendere attività c’è, nonostante il periodo io faccio consulenze per persone che vogliono aprire. Chi sta chiudendo è perché aveva già problemi prima“.
Julien Serri, Magnà, Parigi: “Noi stiano lavorando di più perché la nostra pizza era già tutta impostata sull’asporto. Però abbiamo deciso, oltre che di appoggiarci alle piattaforme di delivery, di consegnarle anche da noi quando possiamo per risparmiare sulle commissioni. Abbiamo creato un nuovo menù apposito per renderlo più attraente, e stiamo lavorando tanto sulla comunicazione social per approfittare del fatto che molta gente ora, chiusa in casa, passa più tempo su internet. Abbiamo anche abbassato i prezzi delle pizze per quelli che al momento sono in difficoltà economiche a causa della situazione, ma non vogliono rinunciare a una pizza semplice. Peccato però che non guadagniamo sulle bevande”.
Emanuele Petito, La Locanda, Nîmes: “Con il nuovo lockdown, molte strutture hanno chiuso. Anche noi abbiamo chiuso il ristorante a Nîmes e stiamo facendo solo asporto, e sta andando abbastanza bene. Ma lavoriamo solo col personale di cucina, il personale di sala l’abbiamo dovuto mandare a casa. Abbiamo un secondo locale in un mercato a Montpellier, ma siamo limitati dai loro orari d’apertura e abbiamo già avuto un calo dell’80%. A questo punto dobbiamo valutare se vale la pena tenerlo aperto o meno. Le perdite sono eccessive, ma fortunatamente i sussidi francesi aiutano“.
Marco Casolla, La Fabbrica di Marco, Toulon: “Rispetto a grandi città come Parigi, qua la cultura dell’asporto è minore. Ci permette comunque di andare avanti, ma sicuramente i guadagni sono molto meno rispetto al servizio a tavola. Tanto è vero che abbiamo chiuso il secondo locale sulla spiaggia anche per l’asporto e il delivery. Ho l’impressione che riapriranno a Natale per poi richiuderci di nuovo, a questo punto sarebbe meglio tenerci chiusi direttamente, così da poterci concentrare direttamente su una migliore riapertura primaverile. Il governo fortunatamente si prende carico della disoccupazione: pagando gli stipendi ci permette di non mandare le persone a casa, anche se siamo comunque in perdita per i costi di gestione del locale”.
Antonio De Fabbio, La Tradizione, Bordeaux: “Purtroppo i clienti sono calati, molti hanno paura anche solo a venire per l’asporto. Preferiscono affidarsi alle piattaforme di delivery, per le quali però noi incorriamo in dei costi pesanti. Fortunatamente in Francia gli aiuti statali per i lavoratori sono molto efficaci”.
Luca Cavallin, Monzù, Bordeaux: “Dopo il lockdown di primavera abbiamo ripreso a lavorare anche più di prima. Ora chiaramente, col secondo lockdown, lavoriamo solo in delivery e asporto. Ovviamente i numeri si sono ridotti, essendo anche il traffico pedonale calato di molto. Noi siamo un grosso ristorante, lo stato ci aiuta a stipendiare i dipendenti, e le consegne ci aiutano a sopravvivere. Abbiamo rimodellato il menù per adattarlo alle nuove esigenze. Si spera che a inizio dicembre ritorniamo operativi, i francesi mangiano tantissimo fuori e i ristoranti erano pienissimi fino al giorno prima del lockdown”.
Germania
Emmanuele Cirillo, Malafemmena, Berlino: “Fino adesso c’era il calo dettato dalla riduzione dei tavoli, e dal fatto che dovevamo chiudere per le 23. Adesso cominciano le vere restrizioni. Tutti i ristoranti verranno chiusi, e potremo fare solo delivery. Per evitare di mandare i ragazzi in cassa integrazione cerchiamo di fare noi le consegne, anche i nostri cuochi hanno detto che non ci sono problemi. Vogliamo provare a sfruttare la popolarità del nostro brand e il fatto che da queste parti la pizza vada più forte nell’asporto rispetto ad altri cibi“.
Massimiliano Grande, Piazza Sorrento, Krefeld: “Fino a poco fa dovevamo chiudere alle 23, ma facevamo comunque buoni numeri. Soprattutto da quando hanno annunciato la chiusura dei ristoranti del 2 novembre l’ultimo weekend la gente ha fatto a gara per mangiare fuori, ed è stato difficile svuotare la sala prima del coprifuoco. Adesso cominceremo a fare delivery, l’esperienza del primo lockdown ci dice che ci andrà bene, anche se comunque i numeri non sono gli stessi del servizio a tavola. Qui comunque i titolari riceveranno come aiuto il 75% del fatturato del mese di novembre di un anno fa”.
Marino Bove, Potz Pizza, Lüdensheid: “Il nostro locale aveva aperto solo da quattro mesi, ma stavamo andando bene visto che nella nostra zona eravamo gli unici a offrire questo prodotto. Anche per questo non facevamo consegne, ma ora con le nuove restrizioni dovremo adattarci perché non possiamo soffrire un danno economico del genere (già c’erano stati dei cali in sala nell’ultimo periodo). Si spera che questa chiusura porti a un calo dei contagi e che ci permetteranno di riaprire a dicembre”.
Giovanni Corrado, 481 pizzamanufaktur, Munster: “Con la chiusura il governo ha assicurato di coprire il 70% del fatturato a chi chiude subito, il 20% a chi decide di restare aperto per l’asporto. Noi abbiamo deciso per la seconda opzione, e possiamo lavorare fino alle 21 per l’asporto (non facciamo domicilio). È un bene che abbiano deciso di sostenere il business della gastronomia, che sta comunque rischiando il crollo: le banche non concedono più prestiti alle attività del settore”.
Luca Fenoglio, Landshut: “Secondo me c’è il rischio che la chiusura possa protrarsi anche dopo Natale, per cui io mi impegnerò principalmente su asporto e delivery. Nel primo lockdown di marzo è un modello che ha funzionato bene. Però il danno è evidente. A Monaco centro, dove un tempo era impossibile accaparrarsi un locale, adesso sono molti quelli vuoti con il cartello affittasi”.
Polonia
Domenico Galasso, Casa Mia, Varsavia: “Personalmente il nostro calo è stato lieve. Dove abbiamo perso in sala abbiamo recuperato molto con l’asporto e il domicilio, chiaramente con un margine di guadagno inferiore. Eravamo comunque già rodati, perché abbiamo aperto durante il primo lockdown e quindi ci siamo fatti conoscere maggiormente con l’asporto. Questo ci ha permesso di non farci cogliere impreparati quando ci hanno chiuso la sala da un giorno all’altro”.
Remildo Cantoro, Ogień, Wrocław: “Da un giorno all’altro ci hanno ordinato di stare chiusi, tra l’altro poco prima del weekend, per il quale avevamo già fatto la spesa. Chiaramente il venerdì sera abbiamo avuto una marea di clienti. Ci siamo attrezzati per fare l’asporto, ma se alla gente dici di stare a casa non vengono neanche per prendere la pizza. Vendite calate dell’80%. Ci siamo quindi affidati a una piattaforma di delivery, ma le vendite non sono incrementate tantissimo (nel nostro caso potrebbe essere perché non abbiamo mai voluto fare delivery prima, e forse la nostra comunicazione è sbagliata). Il problema è che quelle che erano state annunciate come due settimane di chiusura adesso sono state prolungate a tempo indeterminato. La situazione è grave, probabilmente sarà così fino a primavera. E anche i criteri per ottenere i sussidi sono ridicoli, nessuno ha i giusti requisiti”.
Francesco Siano, Ti amo Ti, Cracovia: “Le attività che si sono fatte un nome riescono ad andare avanti con asporto e delivery. Ma questo secondo lockdown ha causato la chiusura di numerosi esercizi meno popolari, soprattutto perché questa volta non ci sono grossi aiuti dallo stato. Si vedono parecchi cartelli di vendita in giro. Cracovia poi ha perso almeno la metà del traffico pedonale con i turisti. Di contro c’è che anche gli affitti dei locali si sono dimezzati, perché non ci sono più molte persone disposte a investire a meno che non abbiano un grosso budget”.
Andrea Gancio, Moka i Wada, Rzesozw: “Abbiamo registrato un calo lieve nelle vendite, il 60/70 % del lavoro funziona grazie a portali di delivery, che permettono in questo periodo un po’ nero di far lavorare tutti coloro che prima non hanno mai fatto asporto . Noi come pinseria rispetto al resto forse siamo avvantaggiati: avendo un prodotto che mantiene la sua croccantezza nel tempo il cliente è più incline a ordinare una pinsa, rispetto a una napoletana che col tempo di consegna può arrivare anche molto gommosa e fredda. Qualcuno sta chiudendo al centro, meno persone in giro e meno lavoro dagli uffici creano un calo importante di ordini”.
Belgio
Cristiano Scarcia, Paolo’s Idea, Bruxelles: “Il settore pizzeria, come in Italia, funziona molto di più nel weekend. Attualmente nel fine settimana riusciamo a fare circa 200 pizze, con le quali ci paghiamo gli stipendi. Dobbiamo ripiegare sul delivery e il takeaway, ma chi ad esempio fa una pizza in stile canotto preferirebbe evitarlo. Tra l’altro la piattaforma di delivery si prende il 30% e lo stato un altro 20% quindi su una pizza di 10 euro ne si guadagnano solo 5, e non è vantaggioso. Siamo aperti comunque per far vedere che ci siamo e per dare un servizio ai clienti. Il locale può stare aperto tutto il giorno, ma per le 21.30 dobbiamo svuotarlo perché alle 22 scatta il coprifuoco, occorre chiudere tutto e andare a casa. Molte pizzerie sicuramente non ce la faranno, già girando per Bruxelles si vedono molte serrande abbassate, una cosa che non si era mai vista in una capitale economica come questa.
Roberto Casula, La Bottega della Pizza, Bruxelles: “Le restrizioni hanno influenzato il nostro lavoro in maniera sostanziale. Abbiamo subito provato con l’asporto: nella prima Bottega ha funzionato relativamente bene, anche perché situata in un quartiere residenziale, con non troppi commerci vicini. La seconda, in zona centrale (quindi più turistica), ha chiaramente riscontrato e riscontra tuttora più difficoltà. Infatti quest’ultima, dopo una settimana di prova nel primo lockdown, ho deciso di chiuderla per tre mesi. Non è stato semplice perché oltre alle tasse fisse abbiamo anche un affitto importante, e con zero entrate abbiamo dovuto utilizzare un po’ di risparmi. Per fortuna l’altra Bottega lavorava in maniera più importante con l’asporto, e abbiamo tirato avanti, riuscendo a pagare le spese dell’altra bottega chiusa… anche senza un vero e proprio introito, ma almeno non siamo andati in perdita. Trascorsi questi 3 mesi, la riapertura è stata per noi una giornata di sole dopo mesi di pioggia, soprattutto per il morale e per il nostro orgoglio di persone libere e soprattutto quello di ristoratori. Appena aperto noi eravamo felici e entusiasti, quasi come il primo giorno di apertura del locale. Contrariamente i clienti sono stati più restii, spaventati dalla nuova situazione. Ci è voluto un mese prima che le persone cominciassero a rilassarsi e tornare quasi alla normalità. I nostri introiti erano al 30-40% più bassi dell’estate precedente, per non parlare dell’assenza quasi totale dei turisti. Adesso da tre settimane siamo di nuovo chiusi qui in Belgio. E siamo dunque punto e a capo, ma stavolta meno impauriti dal virus in sé, e questo mi ha portato a non chiudere la mia seconda Bottega della pizza come la prima volta. Faccio più pubblicità, ho ridotto i prezzi, ho fatto un’offerta con l’asporto con cui regalo una Margherita per ogni tre pizze ordinate insieme. Non faccio grandi numeri, ma non mi voglio arrendere. Ho l’orgoglio di restare aperto e provare a lavorare, per me stesso e per mostrare che la vita continua, anche se diversa ma continua“.
Salvatore Farina, Standard, Anversa: “Parlo spesso con i rider delle piattaforme di delivery e i fornitori, e mi dicono che le pizzerie sono quelle che lavorano di più rispetto agli altri locali. Noi, personalmente, lavoriamo al 75% rispetto a prima, e siamo tra le pizzerie che lavorano meglio, che si attestano generalmente al 50%. Gli altri locali, invece, che non erano forti con asporto e domicilio, lavorano molto meno, anche se stanno ripiegano sulla vendita al dettaglio dei loro prodotti. I numeri sono calati, ma si riesce a sopravvivere grazie agli aiuti statali”.
Antonio Perdighe, AP Pizza, Mons: “Nonostante il coprifuoco alle 22, riesco a compensare facendo tantissima consegna, i numeri non sono cambiati molto per me. Sicuramente il fatto di essere l’unico a fare pizza napoletana mi aiuta a differenziarmi dalle altre pizzerie”.
Nicolò Gueli, Dolce Sapore, Walcourt: “Chi era già forte sull’asporto è sicuramente avvantaggiato rispetto a molti altri ristoranti, per i quali la situazione attuale si è rivelata disastrosa. Io lavoro molto bene con l’asporto, ma perdo molti soldi con la sala chiusa. Fortunatamente lo stato ci aiuta fornendoci il 70% del salario. Ma i grossi ristoranti, con le spese che hanno, saranno quelli danneggiati di più rispetto a quelli piccoli che potrebbero salvarsi.”
Paesi Bassi
Vincenzo Onnembo, nNea, Amsterdam: “Qui abbiamo un lockdown dell’Ho.Re.Ca. che durerà fino a dicembre, con dei sussidi statali basati sulla percentuale di fatturato. Ma dobbiamo vedere con il lungo periodo come andrà, perché con i costi alti di gestione che ha una città come Amsterdam è difficile sopravvivere con quelle cifre. Pensa che anche i ristoranti stellati hanno cominciato a fare la pizza d’asporto. In generale il delivery qui andava molto, e con la situazione attuale è incrementato di più. Personalmente io già dal primo lockdown ho evitato di consegnare il mio prodotto fresco, e ho ripiegato sulla mia pizza surgelata a domicilio o da prelevare, oppure sulla pizza a portafoglio solo d’asporto. Però ho perso comunque tutto il servizio di sala, basato su un’esperienza che si focalizzava molto anche sulla cantina. C’è comunque da dire che dopo il primo lockdown, anche se abbiamo avuto un ottimo riscontro di pubblico, eravamo limitati dalle restrizioni sulle distanze e sugli orari: chiudere alle 21 ci impediva di fornire all’ultimo turno quella tranquillità dell’esperienza che portava il cliente a spendere di più. Allora a questo punto mi sta anche meglio chiudere, e concentrarmi sull’asporto. Mi dispiace perché l’asporto non rappresenta l’identità del mio locale, ma al momento è l’unico modo per lavorare. Abbiamo imparato comunque tantissimo dall’esperienza del primo lockdown, penso che ogni imprenditore debba trovare il modo di inventare una soluzione alternativa. Questo secondo lockdown è stata una sorta di selezione naturale che ha portato alla chiusura di molte attività che non si sono sapute adattare”.
Repubblica Ceca
Frankie Gallucci, Le Pizze di Frankie, Praga: “Hanno chiuso già da tre settimane, c’è il coprifuoco dopo le 21. Nascendo come locale d’asporto a noi non è cambiato molto, ma altri ristoranti si sono dovuti organizzare. Però in generale c’è meno gente in giro, visto che la maggior parte dei negozi sono chiusi. Quindi lavoriamo principalmente con le piattaforme di delivery, ma si nota che la settimana è lenta rispetto al weekend. Viviamo abbastanza alla giornata, senza previsioni“.
Petr Soukal, Da Pietro, Plzeň: “Siamo chiusi al pubblico dal 14 ottobre, e dalla fine di ottobre abbiamo il coprifuoco dalle 21. Negozi chiusi, pochissima gente in strada. Ho fatto di tutto per mantenere i dipendenti. Fortunatamente riceviamo qualche supporto dallo stato. Ma c’è sempre meno gente, ed è difficile guadagnare abbastanza per mantenere tutto lo staff. Siamo aperti ogni giorno dalle 11 alle 20. L’asporto funziona bene, diciamo facciamo un 20% in più nelle ultime settimane. Ma non si può andare avanti così a lungo. Ritengo che abbiano sbagliato a gestire la situazione nel paese, perché in estate era tutto aperto e hanno tolto le restrizioni, e ora ci ritroviamo con numerosi contagi e gli ospedali pieni”.
Austria
Francesco Calo’, Via Toledo Enopizzeria, Vienna: “Ci hanno rimesso in lockdown, e quindi possiamo andare solo di asporto e domicilio. Anche se fortunatamente eravamo già forti da questo punto di vista, dobbiamo comunque reinventare un menù che sia compatibile. Soprattutto perché il mio format, basato molto sulla vendita di bevande alcoliche, ne soffre. Fortunatamente il governo aiuta fornendo l’80% dei guadagni dell’anno precedente, mentre il personale viene pagato dallo stato l’intero importo per tutto il mese, e questo ci permette al momento di non perdere nessuno”.
Nando Sollo, Pizzeria Riva, Vienna: “Tra il primo e il secondo lockdown abbiamo lavorato molto bene, nonostante la mancanza dei turisti. Abbiamo seguito le restrizioni che ci imponeva il governo, e per questo i ristoranti sono stati dichiarati i luoghi tra i più sicuri, con una percentuale bassissima di contagi. Nonostante ciò hanno deciso di chiuderci. Ora i dipendenti sono stati messi in cassa integrazione all’80%, e le aziende pagheranno solo il 5% delle tasse fino al 31 dicembre”.
Spagna
Giuseppe Procentese, Luna Rossa, Madrid: “Rispetto al mese scorso abbiamo notato un calo del fatturato del 40%. Stando al centro abbiamo sofferto tantissimo la mancanza di turisti, e la chiusura di uffici e teatri. Inoltre Madrid è chiusa, nemmeno dalla provincia possono venire in città. Per via del coprifuoco non possiamo ammettere clienti dopo le 23. Per come la vedo io questa storia potrebbe prolungarsi fino all’estate prossima, e ci sarà chi non ce la farà. Perché anche guardandola dal punto di vista del cliente, tanti mesi in cassa integrazione al 50% non permettono alla gente di uscire a divertirsi e cenare fuori. Si può dire che nonostante tutto ci stia andando anche abbastanza bene, ma la situazione può andare a peggiorare“.
Giuseppe Iovino, Il Ghiottone Napoletano, Valencia: “Stiamo lavorando senza problemi, anche se qui ogni due settimane cambiano le restrizioni. Il servizio a domicilio ci salva molto, perché ora come ora la situazione si muove bene solo nel fine settimana. Essendo nati principalmente con il servizio take away, prima ancora di essere un ristorante, abbiamo una nostra organizzazione interna ben strutturata: preferisco quindi non usare le piattaforme di delivery e dare loro delle commissioni così alte. Non credo sia sostenibile con queste percentuali, considerato soprattutto che la piattaforma ti paga a distanza di tre settimane. Già fatturiamo meno, ma l’imperativo è resistere alla situazione. E noi puntiamo anche alla qualità del prodotto per andare avanti”.
Antonio Cerrato, 450 gradi, Las Palmas: “Qui alle Canarie la zona è stata dichiarata sicura. Eppure alcuni paesi, come Inghilterra e Germania, hanno di recente deciso di chiudere i voli verso i nostri aeroporti, proprio perché loro hanno una situazione a rischio. Stiamo soffrendo molto la mancanza del turismo, soprattutto nella zona sud di Gran Canaria che vive di quello. Io comunque da quelle parti lavoro un poco con l’asporto col mio secondo ristorante, ma è davvero poca roba rispetto a prima. Anche il ristorante a Las Palmas avverte la crisi, ma essendo in una città qua si lavora di più. Anche se non con i numeri di prima, lavoro e non mi posso lamentare, e mantengo tutti i dipendenti. La maggior parte dei ristoranti qui nella zona di Las Canteras che lavorano principalmente con i turisti ha però chiuso, o è in enorme difficoltà. Io vado avanti perché ho lavorato sempre con la gente del posto, puntando alla qualità. Il weekend faccio gli stessi numeri di prima, il fatto che possiamo restare aperti fino a l’una di notte ci aiuta”.
Grecia
Marco Zenaboni, La Bella Napoli, Atene: “Anche noi abbiamo il blocco ora. Come politica abbiamo sempre scelto di fare solo asporto e non delivery, perché puntiamo alla qualità rispetto alla quantità. Dopo il primo lockdown, alla riapertura abbiamo raddoppiato il lavoro, con incassi record fino a poco tempo fa. Noi siamo molto quotati, ma so di colleghi che invece già da dopo il primo lockdown non stavano messi bene. Adesso con la ristorazione chiusa, e pochissimi turisti, non so quali possano essere le prospettive. Continueremo a fare solo asporto, però. Personalmente preferisco evitare il delivery con piattaforme esterne”.
Finlandia
Luca Platania, Pizzeria Luca, Helsinki: “Prima ci era consentito di ospitare solo fino al 50% delle persone, adesso ci hanno riportato al 75%. Ci sono meno persone, ma quelle che ci sono hanno un atteggiamento molto rilassato: la mascherina qui è una raccomandazione, non un obbligo, per cui sia il personale che la clientela sono spesso senza. Quelle che non escono sono spaventate, e approfittano volentieri del delivery che è comunque una realtà consolidata tra i finlandesi, che hanno l’abitudine di chiudersi in casa dal primo pomeriggio. Molti ristoranti sono stati costretti a chiudere, le spese gestionali sono altissime, e arrivati a questo punto conviene più stare chiusi che aprire”.
Svezia
Kelly Atkins, The Pizza Pushers, Göteborg: “Gestendo un food truck siamo stati avvantaggiati, perché abbiamo visto che le persone preferivano stare all’esterno, invece che all’interno. Inoltre in quel periodo la città non ha imposto la tassa sull’occupazione di suolo pubblico. Per aiutare i commercianti il governo ha esteso la stagione per cui i ristoranti possono tenere i tavoli all’esterno. Ma in questo periodo dell’anno il tempo non è dei migliori per stare all’aperto. La situazione dello street food non è delle migliori, c’è una gara ad occupare i posti con più traffico, ma la gente in giro è poca. Noi comunque abbiamo cominciato a prendere prenotazioni per gestire il flusso di persone per facilitare il distanziamento. Poi ogni tanto facciamo dei catering che ci aiutano, ma in generale i profitti non sono altissimi. Ma siamo positivi per l’anno prossimo, e cominciamo a prendere prenotazioni. Il governo sta anche varando degli schemi di assistenzialismo per i commercianti, come quello di esenzione dalle tasse”.