Sfruttare il corpo femminile per comunicare la pizza: siamo ancora a questo?

Un'opinione gentilmente offertavi dal moralizzatore

Rubrica di Giuseppe A. D'Angelo — 3 giorni fa

Non so se lo sapete, ma qualche anno fa esisteva un profilo Instagram abbastanza seguito chiamato Pizza e figa. Nonostante il nome possa stonare parecchio oggi alle nostre orecchie otturate dal cerume del politicamente corretto, era in realtà un’idea molto simpatica. La pagina raccoglieva foto di belle ragazze italiane intente a mangiare la pizza. “Le due cose più belle del mondo, finalmente insieme”, era questo, più o meno, il claim del profilo.
Non c’era sfruttamento abusivo di immagine perché a un certo punto erano proprio le ragazze protagoniste a inviare le foto, o perlomeno a taggare il profilo, per comparire sulla pagina. Ed erano sì, spesso e volentieri, ragazze particolarmente belle, ma non a livello di modelle inarrivabili. Ma, soprattutto, le loro pose erano genuine: niente sorrisi ammiccanti, scollature in vista o atteggiamenti provocatori. Si trattava proprio di piccoli ritratti di vita quotidiana, magari fatti in una cena con amici o con il proprio partner, scattati alla bell’e meglio.

Insomma, profilo spiritoso, senza nessun intento a lungo termine. Nonostante l’autore, in privato, mi disse “Pizza e figa è un progetto serissimo”; ma sta di fatto che dopo un po’ di tempo sparì, come se non fosse mai esistito. Un vero peccato, perché aveva accumulato anche un bel po’ di follower, in un’epoca in cui la crescita su Instagram era molto più facile da ottenere, e i profili di pizza erano ancora appannaggio dei blogger e della triade mediatica Sorbillo-Lioniello-Capuano, ma non erano ancora così mainstream.

Eppure qualcuno la lezioncina la imparò bene. A un certo punto, nell’affollato panorama pizza milanese, si affacciò una pizzeria che puntò il grosso della sua strategia commerciale su un utilizzo furbo dei social, con una manovra in due fasi. Fase 1: foto di pizza estremamente saturate – spesso inquadrate in dettaglio ravvicinato per non rivelarne la fattura discutibile – condite con gli ingredienti più in voga del momento, prima di tutti l’onnipresente burrata: food porn. Fase 2: foto di modelle influencer estremamente appariscenti, quasi tutte non sotto la quarta di reggiseno, vestite in maniera abbastanza rivelatoria, in posa al tavolo della pizzeria. La pizza, davanti a loro, appena visibile, relegata a un angolo basso dello schermo, e totalmente ignorata dallo sguardo della tipa di turno, diretto invece con fare molto languido dritto verso lo spettatore: (soft)porn.

Questa strategia è andata avanti per un po’, non si sa quanto abbia inciso sul fatturato del ristorante, ma sta di fatto che la sua pagina Instagram schizzò in alto. A un certo punto devono anche aver finito le modelle di Milano e dintorni, perché poi hanno cominciato con influencer uomini (e ci mancherebbe pure, per par condicio!). Ma l’idea non è passata inosservata, tanto è vero che per un po’ di tempo l’ho vista applicata anche dai social di un’altra famosa catena di pizzerie napoletana.

Gli ultimi anni, però, hanno portato enormi riflessioni su un certo tipo di comunicazione, soprattutto alla luce di un rinnovato interesse verso le tematiche femministe e anti-sessiste. Contemporaneamente, nel mondo pizza, si è cominciato a parlare anche tanto del ruolo della donna come professionista, poco prima relegato a poche figure chiave, ma che ha cominciato a prendersi sempre più spazio nella comunicazione e sui social (ne ho parlato più volte su queste pagine: non è che le donne pizzaiole non esistessero, ma si facevano vedere di meno dei colleghi uomini). Argomento trattato in generale anche nel mondo della ristorazione, dove molte professioniste si sono impadronite dell’appellativo di “cheffe”, per sottolineare la loro appartenenza di genere. Sicuramente è cominciato a cambiare un certo approccio nella mentalità collettiva: donne non viste più solo come soprammobili o, alla meglio, lavoratrici subalterne, ma come professioniste a tutto tondo con una loro creatività, peso sociale e indotto economico. Il Gambero Rosso ha dedicato anche una serie di articoli sulla parità di genere nel settore food, e con piacere ho potuto notare come molte delle intervistate affermino che l’essere donna non abbia messo particolari freni alla loro crescita. Non tutto è rosa e fiori, certo, c’è ancora molto da fare. Ma, almeno ai mie occhi, questo nuovo millennio post-pandemia lo stavo affrontando con uno spirito particolarmente ottimista.

Poi, qualche giorno fa, un amico mi passa il post social di questa pizzeria.

Due ragazze, alte, una bionda molto prosperosa, un’altra riccia e più sinuosa, entrambe in body, intente a infornare una pizza che a stento si vede. La caption dice “Abbiamo cambiato il pizzaiolo”, con tanto di emoji goliardica. Mi sono cascate le braccia, ma tipo che sono cascate direttamente nel Medioevo.

Che uno può dire: vabbè, è stata la svista di un deficiente che pensava di creare un po’ di engagement (spoiler: devono essersene resi conto, perché dopo qualche ora hanno cancellato il post). Ma in realtà ho cominciato a unire i puntini. E mi sono reso conto che forse questa visione ottimista mi aveva ammantato un po’ gli occhi. Mi accorgo che nell’ultimo periodo mi sono passati più volte i contenuti di diverse pizzerie in cui apparivano collaborazioni con influencer scosciate senza nessun apparente motivo, ma li ho semplicemente ignorati. Forse perché non mi interessano, o inconsciamente il mio cervello si rifiutava di vederli.

Questo discorso potrebbe sembrarvi prendere una piega un po’ bigotta. Ma lasciatemi spiegare. Prima di tutto: non sono così ingenuo da pensare che usare un bel corpo femminile non sia uno tra i meccanismi più antiquati del mercato pubblicitario, e immaginare che potesse sparire da un giorno all’altro. Anzi, proprio negli ultimi anni è ritornato prepotente nel mondo dei food influencer, dove si fa a gara a chi cucina con meno vestiti addosso. Ah, e intendiamoci: è un trend che riguarda indifferentemente uomini e donne. Una cerchia di adoni e dee perfettamente palestrate che non posso non guardare con una certa invidia.
Ma, battute a parte, è libera gestione del proprio corpo e io, soprattutto per quanto riguarda le donne, la appoggio in pieno: la liberazione femminile passa anche e soprattutto dall’autodeterminazione, dal poter decidere di sfruttare a proprio vantaggio i doni che madre natura ti ha donato – o per cui hai tanto faticato, perché le natiche sode si ottengono a botte di squat – per poter attirare l’attenzione sui tuoi contenuti. Poi possiamo discutere sulla qualità di questi ultimi, ma quello è un altro discorso.

Un punto di vista privilegiato su una pizza. Perché l’obiettivo non poteva essere spostato più avanti.

Il problema è quando la donna viene messa in vetrina “così, de botto, senza senso”. Perché che mi significa la presenza di due donnine seminude al forno? Ma anche, che me frega che una top model venga a mangiare nella tua pizzeria? Cosa mi stai vendendo? Dov’è il prodotto? È talmente privo di valore che è meglio oscurarlo all’ombra di un balconcino in merletto? O sei tu, titolare, che non hai niente da raccontarmi, e allora via con le curve, che tanto noi uomini siamo scemi e acquistiamo dovunque ci sia il vento in poppa? (sì, lo so, questa era pessima).

L’ultima ipotesi non è che posso proprio scartarla, eh. Recentemente è salita alla ribalta una pizzeria del napoletano per il suo profilo Instagram nei cui contenuti appare quasi sempre solo un membro del suo staff: una ragazza molto avvenente, che ci propone piatti che non si capisce se facciano parte del menù o meno, perché il montaggio è strano, non se ne vede la preparazione, ma solo una serie di gesti accompagnati da parole sospirate, ammiccamenti sensuali, sorrisini ammalianti. A quanto pare basta questo per vedere commenti di clienti maschietti che dicono “devo venire a mangiare la pizza da voi”. Nonostante sia stato chiarito dal titolare stesso che la protagonista dei video è la moglie del pizzaiolo, ma non è lei una pizzaiola.
Tanta trasparenza mi commuove. Se non fosse che i commenti nessuno li legge. Se non fosse lo slogan finale di ogni video, “a pizza ‘e femmena”. Se non fosse il premio alla “migliore comunicazione social” ricevuto a uno dei tanti award sulla pizza. Se non fossero le interviste alla protagonista in questione che dice – giuro, l’ho sentita – “è normale che ci sia molta curiosità nei confronti di una pizzaiola donna, soprattutto se questa è pure una bella ragazza”. Saranno contente le pizzaiole, quelle vere, che si fanno il mazzo dietro al bancone e portano avanti anche attività di cui sono titolari, che finalmente ci abbia pensato una figona che a stento maneggia la pala a gettare luce sulla categoria.

Perché, insomma, la situazione è ancora un po’ quella che è. Adesso me lo levo totalmente questo manto di ottimismo che mi aveva accecato, e lo getto alle fiamme. Non so se si è capito, ma la questione della presenza femminile nel mondo pizza è un tema che mi sta particolarmente a cuore, e che seguo da anni. Un tema complesso da affrontare, perché le dinamiche sono varie e ricche di sfumature, e non basterebbe una tesi di laurea per affrontarle. Però è un fatto che, per quanto le donne si stiano prendendo sempre di più gli spazi che spettano loro nella scena della pizza, la loro voce sia ancora troppo debole.

Non posso non notare quanto la narrazione giornalistica spesso le rappresenti ancora come degli unicorni, dovendone sottolineare sempre il loro ruolo di donna ancora prima che di professionista. Non posso non notare che si creino dei panel di discussione per parlare del loro lavoro, ma poi in alcune classifiche di pizza mondiali sono pressocché assenti. Non posso non notare che anche con le donne si peschino sempre i soliti quattro nomi dal mazzo per parlare di pizza, ma si ignorino tutte le altre professioniste (postilla: questo lo si fa anche con gli uomini).

Qui ci troviamo di fronte a due problemi. Da un lato, un mondo pizza che in molti casi ancora non ha imparato a fare una comunicazione decente. Forse perché non ha niente da dire, o forse perché non sa come dirlo? Chi lo sa. Ma tra trend social tutti uguali, slogan vecchi di vent’anni come “tradizione e innovazione” e “amore per il territorio” e un mercato che diventa sempre più saturo, non mi stupisce che alla fine per attirare l’attenzione si ricorra al meccanismo più abusato di sempre: le donnine seminude.

Dall’altro, una mentalità ancora diffusa che vede le belle donne ancora come un’esca per lo sguardo e non, magari, come un veicolo di comunicazione. No, state tranquilli, non la dico la parolaccia con la p, che non la sopporto neanche io. Però mi ha fatto pensare il fatto che, quando ho portato questa discussione sui social prima ancora di scrivere questo articolo, e ho mostrato la foto di cui sopra, il primo dito puntato fosse contro le donne stesse, ree di partecipare a questo abominio. “È colpa loro, perché si svestono”. Come se quelle modelle, professioniste pagate per fare esattamente quello, avessero dovuto farsi venire lo scrupolo di posare e rinunciare al denaro per soddisfare i nostri parametri di moralità. Ecco, se di fronte a una conversazione di questo tipo la soluzione di molti sarebbe “mettiamole il burqa” allora c’è davvero qualcosa che non va.

E invece sottolineo di nuovo, a scanso di equivoci, che il problema non sono certo le donne che si atteggiano a procaci e seducenti. Qui ritorno al profilo Pizza e figa, dove le ragazze mandavano consapevolmente le loro foto per essere partecipi del gioco, esattamente come oggi influencer e modelle sono ben consce del significato della loro presenza: ognuno è libero di fare quello che vuole e non siamo noi a doverci ergere a giudici morali. 

Il problema reale, per me, è la comunicazione: siete delle pizzerie, porca miseria! Potreste raccontarci tante cose e tutto quello che vi viene in mente nel 2025 per promuovere il prodotto è fare l’occhiolino ai vostri clienti?

Oh, poi questi sono pensieri miei, voi fate un po’ come vi pare…


Qui sotto c’è il video-podcast “Lo Scassapizza”, di Antonio Fucito, dedicato a questo argomento, un’opinione aggiuntiva rispetto a quella dell’articolo. È possibile seguirlo, oltre che su queste pagine, su Apple Podcast, Spotify, Amazon Music & Audible, Google Podcast, Web Audio e RSS

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