Sappiate che la rivoluzione della pizza napoletana in Europa passa anche, e soprattutto, dalla terra della regina. Principalmente da Londra. Che ci crediate o meno, però, nella capitale dei trend culinari la pizza napoletana (quella vera, non quella millantata) ha cominciato ad affermarsi solo da qualche anno. In principio a piantare una bandierina fu Giuseppe Mascoli, che nel 2008 sorprese tutti con la sua pizza da battaglia in una zona, quella del Brixton Market, sulla quale non avrebbe mai puntato nessuno. Ma Mascoli aveva una visione imprenditoriale del suo progetto, e grazie al supporto di numerosi investitori ha creato una catena immensa che ha di fatto privato il prodotto di ogni velleità tradizionalistica, quello stesso ritorno alle origini napoletane da lui stesso cercato agli inizi. Un’enorme opportunità di business colta al volo, ma un’occasione mancata per essere il reale capostipite di una rivoluzione gastro-culturale.
Si è dovuto aspettare qualche anno prima che altri pionieri coraggiosi si facessero largo tra la variegata offerta culinaria di Londra, per imporre un prodotto ancora sconosciuto ai più. Il cambiamento stava per avvenire, e non partiva solo dal piatto, ma da una missione: far capire ai londinesi che non basta la dicitura “Neapolitan” alla propria insegna (spesso in maniera sgrammaticata) o un forno a legna qualsiasi per garantire autenticità. Ci vuole know how, passione e soprattutto tanta roba buona importata dal sud Italia.
Ecco quindi che nei menù si fanno largo nomi come San Marzano, mozzarella di Bufala, Nduja: nomenclature dal nome esotico, ma dal sapore certamente distintivo. Termini che piano piano si fanno strada nella mente, nel cuore e nel palato dei londinesi, grazie alla comunicazione appassionata del personale italiano. Ma anche, e soprattutto, grazie a quegli amici dello stivale che li portano per mano a mangiare in “quel posto buono che conoscono solo loro”, promettendogli la cena della loro vita.
Per un paio di anni queste piccole pizzerie indipendenti sono rimaste relegate negli angoli più oscuri di Londra. Non importa dove tu vivessi, quasi sicuramente dovevi prendere almeno due metro e farti un’ora di viaggio per poter mangiare una buona pizza napoletana. Si andava con il partner, o con la comitiva di amici, ad affrontare anche un’ora di fila per quella pizza “che sa di casa”. Un’attesa che preludeva a una grande esperienza, ma che avresti volentieri evitato: eppure non c’erano altre alternative.
Ma nessuno – me incluso – avrebbe potuto immaginare che di lì a poco la rivoluzione avrebbe preso piede. Sempre più pizzerie hanno cominciato a spuntare pian piano, coprendo diversi punti cardinali all’interno della M25, la tangenziale di Londra. Ancora piccoli progetti indipendenti, ma con una visione comune: quella di offrire un prodotto autentico alla comunità londinese, composta anche da una marea di napoletani emigrati che fino a pochi anni prima erano costretti a scendere a compromessi.
Perché se da un lato i vari Rossopomodoro e Fratelli La Bufala avevano già diverse sedi a Londra centro, dall’altro mancava quel tocco umano: quello della pizzeria di quartiere. Il luogo dove ti senti come a casa, dove dietro al bancone trovi sempre lo stesso pizzaiolo da anni, e il proprietario ti conosce da tempo, ti saluta, si ferma a chiacchierare e ti offre il limoncello. Un trattamento che non è riservato esclusivamente ai connazionali, anzi: la voglia di spiegare al londinese il prodotto che gli si sta portando in casa, la sua storia, le sue radici, la sua cultura, è il motore di banchetti con cui ci si assicura la fedeltà di una clientela affezionata. Che torna, incuriosita dallo storytelling del nuovo prodotto di stagione, o dell’ultima pizza del mese.
Il marchio “Neapolitan” non è più solo un’insegna vuota da esibire abusivamente. Comincia a reclamare la sua identità anche in terra britannica. Il fascino esotico viene messo da parte in favore di un approccio più consapevole. Ormai chi va a mangiare in una pizzeria napoletana sa bene che la pizza che gli verrà messa a tavola è diversa da un disco di pasta qualsiasi: un piatto non solo differente nella sua realizzazione, ma con un enorme peso culturale.
Sarà per questo che a un certo punto gli inglesi, colti da spirito di emulazione, cominciarono ad affacciarsi a questo magico mondo. E capirono che non solo il prodotto ma le storie autentiche, quelle vere, fanno fare i big money. Ed ecco che nei mercati spuntano molti piccoli stand di pizza a portar via, tutti con una storia in comune: “abbiamo girato l’Italia” (NB: possibilmente in Ape), “abbiamo imparato l’arte della pizza napoletana sul posto, ci siamo appassionati agli ingredienti della cucina italiana e abbiamo deciso di ricreare questo feeling a casa nostra”.
Strategie di marketing che sanno di autentico. E che sia vero o meno, poco importa: perché l’importante è vendere. I fratelli Elliott di Pizza Pilgrims hanno costruito un impero su queste premesse. Volto giovane, sorriso pulito: ci faceva piacere che la cultura napoletana li avesse conquistati e avessero deciso di farla propria, eravamo contenti di dargli i nostri soldi. Ma poi i locali cominciarono ad aumentare, e la qualità a decadere gradualmente. L’entusiasmo iniziale lasciò spazio al cinismo: “i soliti inglesi, pensano solo a fare i soldi, non gli importa niente del prodotto”. Ma è proprio così?
Facciamo un salto più a nord. Nel frattempo che Londra viveva la sua rivoluzione di piccole pizzerie autentiche sparse sul territorio, Manchester si approcciava alla pizza napoletana su due fronti: da un lato, giusto un paio di pizzerie italiane localizzate nei recessi della grande area metropolitana; dall’altro, progetti di investitori inglesi situati al centro, che però non hanno mancato di rispetto alla cultura della tradizione. Un caso simbolo è quello di Rudy’s: tra lo stile industrial e i pizzaioli mancuniani c’è ben poco di italiano nel loro ristorante, ma la pizza è straordinariamente verace.
La situazione nella città del nord dell’Inghilterra è stata questa per un paio di anni circa. Poi l’esplosione: nel 2018 sono ben tre le pizzerie napoletane, gestite totalmente da italiani, ad aver aperto nel centro. Questa impennata ha reso di fatto Manchester la seconda città nel Regno Unito col maggior numero di pizzerie napoletane. Con il percorso inverso, però: sono stati gli inglesi che, con lungimiranza e un grosso rispetto per l’autenticità, hanno fatto da apripista agli italiani.
Tutto ciò è avvenuto in un arco di tempo piuttosto breve, di un periodo anche molto recente. Ma non si pensi che queste situazioni siano atipiche. Abbiamo un terzo caso da studiare: la piccola cittadina di Brighton. Un gioiello sul mare, a un’ora di treno da Londra, di appena 230.000 abitanti. Qui il fenomeno assume gli stessi connotati di una città che si distingue per essere internazionale e open-minded come Londra, ma ha gli stessi ritmi tranquilli e rilassati di un paesino del Mediterraneo.
I primi a volere la pizza napoletana sono quelli di Fatto a Mano. Fondata da due inglesi, ma dal personale tutto italiano, oggi è una piccola catena con tre locali di successo, aperti con dovuta cautela, senza troppi grossi soldi buttati nel paniere. C’è la pizzeria indipendente NuPosto, frutto del matrimonio d’affari – e reale – di un napoletano con una inglese. E c’è persino un concept di pizza vegana, quello di Purezza, che ha macinato successo proprio da queste parti prima di andare a dare lezione alla stessa Londra con la sua seconda sede nel quartiere di Camden.
Tre città, tre casi simbolo. Ma in questo paese, l’avanzata della pizza napoletana non accenna a fermarsi. Abbiamo grattato la superficie focalizzandoci su tre aree delimitate. Se gettiamo il nostro sguardo sull’intera isola vediamo infatti che pizzerie stabili o stand di pizza napoletana continuano a spuntare come funghi. La parte sud è dominata nell’area intorno a Bournemouth da una piccola catena chiamata Baffi. In Scozia, Paesano rende felici gli abitanti di Glasgow. A Herne Bay la pizzeria di Gennaro Esposito è l’unica certificata AVPN. Giacomo Guido ha conquistato Chester con il suo canotto cotto in forno elettrico. E poi Sheffield, Bristol, Cambridge, Leeds…le città non si contano.
Come non si conta il numero di nuovi amanti della pizza napoletana: la seconda generazione di pizzaioli su territorio inglese che non ha più bisogno di frequentare costosissimi corsi a Napoli, ma si affida ai maestri del posto. Sono molti i pizzaioli nostrani che si alternano tra il forno e le consulenze. C’è chi come il leccese Marco Fuso ha dedicato la vita alla pizza in tutte le sue forme, con particolare predilezione per la contemporanea, e viaggia da una contea all’altra per tenere corsi di base e masterclass. Solo una parte dei suoi studenti è italiana: la passione per la pizza sta in realtà conquistando i cuori di tutte le nazionalità di questo paese. L’incentivo maggiore è chiaramente quello che intravede la possibilità oggettiva di trarne un business redditizio. Si cavalca il fenomeno, con la pizza vai sul sicuro.
La nuova ondata di pizzaioli proveniente dai corsi dei maestri sta andando mano a mano a ricoprire, a macchia di leopardo, le aree più remote della verde Inghilterra. Piccole pizzerie nei paesi più sperduti, difficilmente raggiungibili anche con un treno. O nel format itinerante, quello dei mercati provinciali, la forma più remunerativa e meno stressante. Il network si espande, e allo stesso tempo si espande la rete degli importatori di prodotti alimentari e di macchinari da pizzeria come forni e impastatrici.
E non è un caso che ormai da qualche anno il Pizza & Pasta Show di Londra, la fiera di riferimento del settore, attira sempre più curiosi. Non più solo appannaggio dei trader, ma aperta a un pubblico che vuole vedere chi si muove all’interno di questa industria così florida, assaggiare le diverse varietà di pizza, assistere al campionato che attira pizzaioli da tutto il Regno Unito e che vede seduti al tavolo dei giudici nomi grossi della cucina nazionale. Un pubblico che vuole toccare con mano la rivoluzione.
Una rivoluzione in continua espansione, che ormai si lascia alle spalle l’origine partenopea per acquisire una nuova identità multiculturale. Ma che non dimentica le sue radici. Perché a ben vedere nelle fiere, nei mercati, nei festival, nei campionati risuona sempre da qualche parte il suono di quel marchio: Neapolitan, napoletana. La pizza. Binomio indissolubile.