Le consegne a domicilio sono un business vecchio come il mondo ma, complice la pandemia che ne ha favorito la diffusione e anzi ne ha legittimato l’operato al pari di altri servizi essenziali, attorno alle più importanti compagnie pare prevalere un certa euforia tecnologica che richiama un po’ quella vissuta all’inizio degli anni duemila per le prime dot-com. In realtà però, quello del delivery è un settore complesso, che ha prodotto sì ricavi lordi molto alti (+54% per Deliveroo nel 2020) ma che soffre anche di qualche problema di sostenibilità, data la moltitudine di attori e concorrenti in gioco, i pesanti costi di mantenimento dell’infrastruttura digitale e la giurisprudenza che rincorre le aziende chiedendo diritti e tutele per i lavoratori.
È un tema attuale e che dunque è importante provare a sviscerare: sarebbe troppo semplice limitare la nostra analisi a una presa di posizione affrettata, sia dalla parte dei lavoratori che chiedono maggiori tutele sia da quella delle aziende che cercano il punto di pareggio tra costi e ricavi. A tal proposito, mi preme innanzitutto porre l’accento su un aspetto che spesso viene ignorato ma dal quale non si può prescindere: in Italia e all’estero, il mondo della ristorazione non può più fare a meno del delivery ed è proprio grazie a questo business che decine di migliaia di persone hanno iniziato a lavorare e un numero significativo di pizzerie e ristoranti sono riusciti ad allontanare lo spettro di una chiusura altrimenti definitiva.
Gli attori in gioco li conosciamo tutti e la loro scalata al successo è stata pressoché simile: Deliveroo, Uber Eats e Glovo competono per lo stesso mercato in modi piuttosto simili offrendo un servizio che si dice ‘per l’ultimo miglio’, permettendo ai clienti di ordinare cibo (ma non solo) e riceverlo comodamente a casa tramite un’app. Poi c’è Just Eat, molto attiva nel campo della regolamentazione dei contratti di lavoro, e che produce utili sia prestando i propri rider per le consegne sia affittando la sola piattaforma informatica a chi vuole gestire in autonomia il delivery, utilizzando il personale del ristorante (e sono il 75% delle attività sul catalogo). Nate tutte come startup, le aziende sono ora pubbliche e quotate in borsa, con valori alle stelle. Significativo il caso di Deliveroo, che si prepara a sbancare la borsa di Londra per i primi di aprile, con un’offerta pubblica iniziale tra le più sostanziose mai registrate (si parla di quasi 9 miliardi di euro).
Quotazioni alle stelle, fatturati da record e conti in rosso: come mai?
C’è grande euforia e i colossi della finanza Goldman Sachs e Jp Morgan che accompagneranno la IPO di Deliveroo puntano molto in alto: l’azienda si espande, i ricavi lordi nel 2020 hanno superato i 4 miliardi di sterline (includendo il prezzo del cibo) mentre quelli effettivi sono stati ‘solo’ di 1,2 miliardi. Un differenziale piuttosto pesante e, come se non bastasse, l’azienda continua a subire perdite gravi da anni (220 milioni nel 2020) perché i costi sono tanti e differenziati. Discorso analogo per le società concorrenti, tutte con passività che ammontano a centinaia di milioni di dollari, in forte crescita e con investimenti sostanziosi alle spalle. Nel nostro paese le app di delivery stanno conquistando sempre più spazio e, a oggi, gestiscono più di un terzo del business delle consegne a domicilio, per un valore complessivo di oltre un miliardo.
Ma come rivelano i numeri di Deliveroo nel Regno Unito, il conto economico di queste aziende è dilaniato di costi, spese e commissioni: ne deriva dunque un margine di guadagno minimo e che al momento non lascia spazio a grandi manovre. Si pensi che per ogni ordine, viene applicata una commissione fissa al ristorante in cambio della sua presenza sull’app e un costo di servizio all’utente, calcolato in percentuale sul totale dell’ordine. Oltre a questi due valori, dal totale dobbiamo sottrarre le tasse, il compenso dovuto al rider, il compenso incassato dal ristorante e la commissione per l’uso di un circuito di pagamento elettronico, qualunque esso sia.
Non abbiamo dati ufficiali però diverse fonti confermano una commissione media che il ristoratore paga ai gestori dell’App attorno al 20% mentre i costi di servizio e i margini di guadagno si attestano attorno al 10%. In un ordine tipo – effettuato in una pizzeria di Milano – su un totale di 30 euro dobbiamo considerare 5,72 euro di IVA (al 22%), 1,40 euro di consegna e 2,60 euro di costi di servizio. Dei restanti 20,28 euro pare che il ristorante ne riconosca un 20% (circa 4 euro in questo caso) al gestore dell’App il quale, unito al 10% precedentemente citato, utilizza per coprire anche le proprie spese. Con buona approssimazione possiamo dire che l’App intasca circa 6 euro e mezzo, di cui però circa il 50% è suddiviso tra commissioni per il pagamento elettronico e il compenso fisso del rider (che si somma alla commissione variabile pagata dall’utente in base alla distanza).
La situazione così delineata dovrebbe restituire un’idea dell’attuale complessità di questo business, che punta sull’unione di piccole percentuali applicate a numerosi ordini per generare un guadagno. Lo scenario così descritto non è sostenibile e ciò che gli investitori vogliono ottenere, per arrivare a produrre utili in maniera sistematica, è un aumento costante dei volumi degli ordini assieme a una diffusione e una concentrazione delle consegne sul territorio soddisfacente (servono almeno due anni per raggiungere la cosiddetta Operational Excellence). In gioco poi ci sono anche le istituzione come la procura di Milano che recentemente ha chiesto l’assunzione di oltre sessantamila rider a contratto e che negli ultimi mesi ha indagato e sanzionato per 770 milioni di euro le principali aziende di delivery. Un percorso – economicamente parlando – pieno di ostacoli e che aiuta a comprendere, tra le altre cose, come mai un leader delle consegna a domicilio come Domino’s Pizza non abbia intenzione di affidarsi a un servizio di questo tipo.
Il futuro degli incassi sta nel B2B e nei dati dei clienti!
Il vero tesoro a cui guardano queste imprese è nascosto nel settore B2B ovvero nel rapporto con i ristoratori e le pizzerie. Qualcosa, a guardar bene, è già in atto: in particolare si tratta di due mosse, a costo praticamente zero, utili per il posizionamento dell’impresa e per allentare il peso della gestione d’impresa. La prima è la sempre più frequente ‘esclusiva’ che gruppi o locali di tendenza accordano a una specifica App: vuoi ordinare da loro? Allora sei costretto a usare la mia App. Semplice ed efficace. L’altra invece concerne in un piccolo extra pagato ai rider in caso di maltempo e che non viene pagato dal datore di lavoro ma viene anzi addebitato ai consumatori, in aggiunta all’incentivo sempre molto presente di lasciare una mancia, quasi a voler scaricare il peso del costo del lavoro sul cliente finale, aumentando il potenziale sfruttamento.
Un cambio di passo è alle porte e le imprese guardano sempre più a esempi virtuosi come Amazon e Netflix in quanto aziende che hanno saputo trasformare i dati dei propri clienti in una vera e propria fonte di ricchezza. Tali informazioni hanno un valore rilevante per i ristoratori: un’app di food delivery può infatti essere in grado, per ogni cliente o gruppo di clienti, di indicare quali sono i gusti, la composizione del nucleo familiare, gli orari preferibili per comunicare col cliente (l’orario in cui è solito pranzare o cenare, ad esempio), altri locali che potrebbero interessargli in base allo storico ordini e alla sua età anagrafica e addirittura un legame tra piatti ed eventi in TV (“Che ne dici di una bella Pizza mentre guardi la partita della tua squadra stasera?”).
L’obiettivo? Conoscere alla perfezione gusti e interessi per rendere il servizio efficiente ed efficace
Il futuro del delivery è questo: conoscere alla perfezione gusti e interessi dei propri clienti per rendere il servizio più efficiente e venderlo con un’efficacia altrimenti irraggiungibile. E una volta raggiunto questo grado di eccellenza, allora si potrà pensare anche a un sistema di vendita strutturato su più piani d’abbonamento (esiste già Glovo Prime, per ricevere consegne gratuite illimitate a fronte di un canone mensile) e una comunicazione maggiormente persuasiva, al fine di condizionare il comportamento di consumo dei propri clienti con rinforzi positivi e a intervalli fissi (notifiche push con sconti ad hoc, raccolta punti etc.).
Per arrivare a questo punto servirà del tempo, almeno due o tre anni a giudicare da quanto impiegano le aziende a raggiungere il punto di pareggio nelle grandi città, ma il percorso evolutivo è tracciato: allora forse, una volta ripagati gli investimenti e i costi dell’infrastruttura digitale, le continue pressioni di chiede maggiori tutele per questa nuova classe di lavoratori saranno finalmente ascoltate e le imprese inizieranno ad assumere i rider e a far decollare il proprio business.