L’inutile crociata della stampa contro i food influencer

Quando un reel smuove più di cento articoli, i giornalisti preferiscono puntare il dito, invece di evolversi . Ma dietro le critiche si nascondono solo paura e invidia.

Rubrica di Giuseppe A. D'Angelo — 3 mesi fa

Food Influencer

C’è una crociata in corso nel mondo della comunicazione gastronomica italiana. Una battaglia silenziosa ma feroce che si combatte tra le righe di articoli e nei commenti dei social network. La crociata va avanti da tempo nel silenzio generale, e coinvolge diverse testate specialistiche nel loro disperato tentativo di dipingere gli influencer – o, come preferisco chiamarli, i content creator, perché nel nostro paese il termine influencer si porta da tempo un sottotesto represso di disprezzo – come una massa di incolti incompetenti pronti a vendersi per un piatto di penne al pomodoro.

Quando, quasi due anni fa, la Stampa interruppe la sua quarantennale collaborazione con Edoardo Raspelli, giornalista che ha fatto la storia della critica gastronomica in Italia, la notizia venne accolta con tristezza da numerosi colleghi e lettori. Non si conoscevano i motivi di questa interruzione: eppure, quando sui social si scatenò la solita polemica, il capro espiatorio venne servito all’istante: “È tutta colpa dei food influencer!!!”.
La tesi venne alimentata anche da un altro professionista – di cui non mi interessa fare il nome, perché non stiamo qui a fare gossip: “la gente non è interessata alla qualità perché ormai siamo invasi dal lavoro dozzinale di influencer e creator incompetenti che riducono la comunicazione food a reel insignificanti come tante scimmie urlatrici, ed è lì che vanno i soldi ora”.

Sia chiaro, non è che ritengo che questa tesi sia del tutto infondata o non corrispondente alla realtà. Ma non tollero il derubricare tutta la vicenda a un binomio assolutistico che è tipico di un certo conservatorismo elite: quello che vede da un lato la stampa tradizionale, dove tutto è buono, giusto e di qualità; e all’estremo opposto il lavoro dei content creator, che producono solo spazzatura.
E qui emerge il vero problema. La stampa tradizionale – qualsiasi cosa questo voglia dire – fa un’enorme fatica ad accettare il fatto che molti di questi influencer, con un solo reel, facciano più visualizzazioni di quante ne possano fare tutti gli articoli pubblicati in un mese sul proprio sito. E invece di capire come innovare e migliorare la comunicazione per renderla più rilevante e avvicinarla a una fetta più grossa di pubblico, tutto quello che sanno fare è dare addosso ai “giovani di Instagram” che non avrebbero il linguaggio o le competenze per essere considerati al pari livello dei professionisti della carta stampata.

pizza con patatine

Il cardine su cui si regge questa tesi è quello di un sillogismo sbagliato: il giornalista tradizionale è competente, il content creator no. Una visione superficiale e ignorante di chi dimostra davvero di non frequentare le piattaforme social, o perlomeno si ferma alla superficie dei contenuti spazzatura – quelli, innegabili – che spesso ci arrivano prima degli altri perché premiati più facilmente dalle persone, e quindi dall’algoritmo.

Ma guardiamo i numeri: in Italia la creator economy stima un giro d’affari di oltre 4 miliardi di euro, con quasi 38mila individui che creano contenuti. Sono davvero tutti delle capre non meritevoli d’ascolto?
Focalizziamoci sul food e partiamo dalla categoria più popolare, quella degli autori di ricette. Ci sono una marea di creator che si impegnano a elaborare piatti solo per far conoscere ingredienti e ricette del proprio territorio, valorizzare la cultura delle zone che abitano e portarla a un pubblico molto più ampio. Laddove queste ricette in tempi passati sarebbero state relegate solo alla conoscenza di pochi viaggiatori.
Passiamo a quella categoria di creator che invece narrano il cibo che mangiano: quanti di questi ci permettono di conoscere piccole realtà gastronomiche che verrebbero totalmente ignorate da guide, classifiche e articoli di giornalisti gastrofighetti? Molti di questi sono in grado con un reel di spostare una quantità di persone tale che una testata giornalistica non sarebbe in grado di fare in un anno di pubblicazioni.

Ci sono poi quelli che intrattengono relazioni di consulenza con aziende di ristorazione permettendo loro di migliorare la comunicazione del proprio prodotto e raggiungere un parco clienti più elevato, aiutandoli così a incrementare il fatturato. In ultimo aggiungo quella particolare nicchia di divulgatori dell’alimentazione – chimici, nutrizionisti, tecnologi alimentari – che non solo creano informazione positiva rendendo accessibile la conoscenza scientifica alla massa, ma pubblicano e vendono copie e copie di libri, tenendo in piedi un settore come quello dell’editoria che al giorno d’oggi si regge principalmente grazie a queste figure.

In soldoni, molti content creator fanno informazione di qualità e fanno girare l’economia.

Margherita (Federico Guardascione - il colmo del pizzaiolo, Napoli)

Basterebbero questi pochi punti a far crollare l’intera tesi anti-social dei conservatori del giornalismo tradizionale. Peccato che i fatti servano a poco di fronte a un’altra opinione ben consolidata che ci si è costruiti nei confronti di questi figli del demonio: ovvero che sono tutti marchettari al soldo di chi li paga, e che per questo la loro parola valga meno di zero.
Al che faccio notare che pubblicità e informazione possono anche andare di pari passo: basta mettere le opinioni da parte, narrare fatti veri e farlo con la massima trasparenza e tutti i disclaimer del caso. D’altronde, la stessa carta stampata non vive anch’essa di publiredazionali? Ma niente, anche la logica non abbatte il muro della diffidenza: gli influencer sono marci dentro, solo i giornalisti sono i duri e puri, veri salvatori della patria.

Quelli che gridano all’untore non fanno altro che palesare quel mostro dagli occhi verdi che li rode da dentro: l’invidia di non essere stati capaci di adeguarsi alle nuove forme di comunicazione, aggiunta probabilmente alla consapevolezza che forse non è che si abbiano queste grandi cose interessanti da dire.

“La qualità non conta più nel giornalismo italiano”: questa frase, citata a più riprese, può trovarmi d’accordo su molti fronti, ma non se viene utilizzata solo per dare addosso ai creator. Chi definisce cosa è qualità? E quando parliamo di giornalismo italiano, di quale giornalismo parliamo? Nel nostro paese ci sono numerose realtà giornalistiche nate digital che fanno numeri e fatturati interessanti, editori giovani dal taglio moderno che si reggono su un modello di business che riesce a coniugare informazione di qualità, intrattenimento, pubblicità e persino patronaggio.

E allora, è il giornalismo tradizionale a essere in crisi, o certi dinosauri che lo abitano?

La libertà di opinione e di espressione è sì sacrosanta, ma la professionalità, quella vera, richiederebbe che si pensi a fare il proprio lavoro senza sputare su quello degli altri. La prossima volta che un direttore di testata si trova di fronte a un articolo contro i content creator, potrebbe pensarci un pochettino di più prima di approvarlo. Le domande da farsi sono semplici: che utilità ha? A chi giova? A cosa serve dipingere come nemico chi, spesso, condivide gli stessi obiettivi: raccontare il cibo, diffonderne la cultura, valorizzare il territorio?

La risposta è semplice: non serve a nessuno. Non migliora il giornalismo. Non migliora la discussione. Non migliora nemmeno il pubblico.

Se si vuole dare una nuova direzione al corso delle cose magari, per una volta, un pezzo del genere potremmo pure cestinarlo. Perché il vero problema non sono i content creator che fanno milioni di visualizzazioni: il problema è chi rifiuta di accettare che la comunicazione gastronomica sia cambiata per sempre. E chi crede che per difendere il proprio mestiere serva demolire quello degli altri, invece di imparare qualcosa da loro.