Pizza e Birra: cosa c’è da sapere su abbinamento e varietà brassicole
I giusti abbinamenti e qualche mito da sfatare, assieme ad alcuni cenni storici.
Rubrica di Iacopo Risi — 3 mesi fa
Nonostante la diffusione ultradecennale del circuito artigianale, la birra non ha mai varcato in maniera decisa la soglia del prodotto tipicamente popolare. D’altra parte questa straordinaria bibita si è diffusa nella cosiddetta cultura occidentale attraverso le classi meno abbienti, come alternativa a bevande alcoliche ritenute più pregiate come il vino. Nei paesi nordeuropei, specialmente nelle terre anglofone, la situazione non è poi molto cambiata, osservando il listino prezzi anche dei più modesti supermercati, mentre dalle nostre parti la questione è ben diversa e la birra vista come “bevanda del popolo” è prima di tutto una questione culturale.
Anche se la situazione è in via di miglioramento, i luoghi di ristoro nostrani presentano tendenzialmente una quantomeno accettabile lista vini (dove presenti), mentre per il consumatore di birra la scelta è spesso relegata alle solite due o tre classiche birre industriali. Prodotti quest’ultimi che, giocoforza, propongono una qualità complessiva che non rende giustizia a questo mondo affascinante.
La presenza dello spillatore è un valore aggiunto ma in negativo, data la presenza di personale non sempre istruito a versare la birra in modo corretto. Solo pochi e semplici accorgimenti sarebbero infatti sufficienti per evitare il classico gonfiore allo stomaco dovuto all’anidride carbonica e mantenere aromi e proprietà organolettiche anche della marca più modesta. Inoltre, secondo quanto affermano gli addetti ai lavori, la manutenzione a la pulizia di tubi, raccordi e beccucci dello spillatore sono spesso ridotte ai minimi termini. Questo comporta, fino alla successiva riapertura del locale, una colonizzazione di batteri sulle sostanze organiche depositate nei condotti, che non possono far altro che alterare ulteriormente il prodotto che ci viene servito. Ed infine, la tanto sottovalutata scelta del tipo bicchiere, che ricade assai sovente sul classico boccale o la pinta da pub per mere questioni di folklore.
Ma anche il singolo consumatore non è esente da critiche: durante un pranzo o una cena di gruppo, come la classica grigliata, la selezione delle bevande si attesta quasi sempre sulle (non di rado) piatte ed economiche birre industriali, meno su un vino da tavola a buon mercato. Al di là della nostra comprensibile inclinazione legata alla tradizione vinicola, la percezione è che spesso releghiamo la birra ad un marginale ruolo di bibita fresca e dissetante, escludendo a priori la possibilità di affidarci ad un prodotto di alta qualità protagonista di un convivio.
E pensare che la birra ha nobili origini, una genesi che si perde nella notte dei tempi: i primi documenti riconducibili a veri e propri processi brassicoli risalgono infatti a più di 6000 anni fa, rinvenuti dagli scavi archeologici tra l’Antico Egitto e la Mesopotamia. A quanto pare, il popolo sumero ed i faraoni egizi furono i primi mastri birrai, mentre gli antichi romani, alcuni millenni più tardi, associarono per primi la birra ai popoli barbari poiché particolarmente diffusa tra le popolazioni nordeuropee che occupavano aree dove la coltivazione della vite risultava assai difficoltosa.
Questa doverosa premessa non deve tuttavia far credere al lettore di trovarsi dinanzi all’ennesimo articolo mirato a sensibilizzare il consumo della birra di qualità, oramai disponibile ed accessibile a tutti. Certo, le materie prime ed il processo di produzione sono importanti, e sebbene questa ricetta abbia attraversato secoli e culture sino ad arrivare ai giorni nostri senza particolari stravolgimenti, le regole ed i metodi sono molteplici dando origine a macrogruppi e sottocategorie con effetti ben diversi al palato del bevitore.
Per questo motivo, pur rinnovando l’invito ad alzare anche di poco l’asticella della qualità, con l’aiuto di un esperto cercheremo di collocare la giusta tipologia di birra alla pietanza più consona, declinando ovviamente questi speciali abbinamenti al mondo della pizza. E’ tuttavia indispensabile effettuare in primis una rapida suddivisione e descrizione delle principali tipologie di birra esistenti.
Una ricetta che ha attraversato i secoli
Uno dei principali motivi della diffusione della birra è legato alla semplicità dei tre ingredienti di base utilizzati: acqua, lievito e cereali. In particolare per quest’ultimi, nel corso dei secoli è stato impiegato il seme in fase di germinazione che prende il nome di malto.
La birra è arrivata fino ai giorni nostri mantenendo pressoché intatta la sua formula ed i principali ingredienti, nonostante epoche e culture abbiano dato il loro contributo per quanto riguarda metodi di produzione e componenti aggiuntivi, come spezie, bacche ed erbe selvatiche. Un secondo periodo nobile della birra è probabilmente quello legato alla produzione nei monasteri medievali, in particolare nelle aree degli attuali Belgio e Germania, dove pare sia stato introdotto il quarto celebre ingrediente, il luppolo, a cui si deve l’altrettanto rinomato sapore amaricante.
Il luppolo, già conosciuto e introdotto tra i principali aromi della birra, divenne un ingrediente imprescindibile intorno al XII secolo a.C. grazie a Hildegard von Bingen. La celebre monaca benedettina tedesca dai molteplici talenti, durante lo studio delle proprietà antisettiche e conservanti di questa pianta, ne evidenziò infatti i benefici in ambito brassicolo.
Il lievito di birra venne scoperto ed usato coscientemente verso la fine del XVII secolo, dato che sino ad allora la produzione della birra veniva affidata alla fermentazione spontanea dovuta ai batteri selvaggi presenti nell’aria, un passaggio ritenuto misterioso anche dai mastri birrai dell’epoca.
Inizialmente riconducibili a dei veri e propri laboratori di sperimentazione, nel corso dei secoli le abbazie hanno dato vita alle prime produzioni di massa, diventando a pieno titolo i primi birrifici della storia.
Una data fondamentale per la birra è il 23 Aprile 1516, quando Guglielmo IV di Baviera emanò il celebre Editto di purezza, un documento storico che segnò un punto fermo per lo sviluppo di questa bevanda nei secoli a venire. Quest’ordinanza proponeva una semplice regola per la produzione della birra, ovvero l’utilizzo esclusivo di tre ingredienti: acqua, orzo e luppolo.
Ma si trattava davvero di una legge utile a preservare l’originalità della ricetta? Pare proprio di no. In soccorso alle numerose e recenti carestie, l’editto aveva in realtà lo scopo di preservare le scarse risorse alimentari che venivano impiegate nella vasta produzione di birra, all’epoca un prezioso alleato per i gruppi sociali più disagiati, grazie al suo apporto calorico ed alla possibilità di consumare una bevanda resa salubre dalla fermentazione e dalla bollitura del mosto.
Dopo la rivoluzione industriale, il baricentro della produzione brassicola si spostò verso il Regno Unito, il quale divenne il primo produttore al mondo grazie a nuove tecnologie che consentivano di produrre ed esportare birra in tutto il mondo.
Questione di stile
Dopo alcuni doverosi cenni storici, cerchiamo quindi di classificare i principali gruppi e stili birrari che nel corso della storia sono arrivati ai giorni nostri e si sono maggiormente diffusi.
Esistono innanzitutto due macrogruppi legati al processo produttivo. Nel primo, denominato birra a bassa fermentazione, il mosto viene lasciato raffreddare tra i 7 e 10 gradi con l’aggiunta del lievito Saccharomyces Pastorianus. Si tratta di una fermentazione lenta, lasciata in deposito per almeno quattro o cinque settimane. A fine lavoro, il lievito va a depositarsi nella parte bassa del recipiente, caratteristica da cui deriva il nome di questo processo.
A questo gruppo appartiene la grande famiglia delle Lager, che in tedesco significa non a caso “magazzino”, che comprende la stragrande maggior parte delle birre industriali, in particolare la Pilsner, la Helles e quelle da noi comunemente chiamate Chiara o Bionda. Sono i tipici prodotti associati alla classica “pizza e birra”. D’altra parte la bassa fermentazione è un processo più gestibile ed il risultato finale porta ad un gusto generalmente più leggero e pulito, un aroma meno complesso che richiama subito il sapore erbaceo del luppolo, come la sopracitata Pilsner, o il maltato come la Märzen, la tipica birra dell’Oktoberfest dallo spiccato retrogusto dolce e tostato.
La gradazione solitamente si attesta attorno ai 5 gradi, ma vi sono altri stili, come le birre Bock, Zwickel, Dunkel o le affumicate Rauch Bier, caratterizzate da una certa corposità ed una gradazione più accentuata (6-7 gradi). La bassa fermentazione è una tecnica prevalentemente diffusa nel territorio mitteleuropeo della Germania e della Repubblica Ceca.
Il processo produttivo dell’altro macrogruppo, ovvero la birra ad alta fermentazione, prevede l’impiego dei Saccharomyces Cerevisiae, ed una fermentazione a temperature più elevate, circa tra i 15 ed i 23 gradi. Il ceppo, noto come il classico lievito di birra, si attiva molto più rapidamente e impiega molto meno tempo (due settimane, circa) ad esaurire la sua funzione. A fine lavoro, i lieviti tendono a depositarsi in superficie, azione che determina anche in questo caso, il nome di questa tecnica. Tra le principali birre ad alta fermentazione segnaliamo le britanniche Ale, Bitter e Porter, le Stout irlandesi, le Wheat americane, le Weisse/Weizen tedesche e le birre Ambree, Blanche, Dubbel e Tripel belghe.
Le sottocategorie di questo gruppo sono moltissime, dando percezioni al palato piuttosto differenti l’una dall’altra. Generalmente sono birre più corpose ed “impegnative”, in cui si avvertono intensi aromi di fruttato e speziato specialmente nello stile belga. Negli stili anglo/americani si aggiungono decise notazioni amare, in particolare nella oramai sdoganata IPA, storicamente sottoposta ad alte dosi di luppolo per una maggior conservazione durante i lunghi viaggi in nave. IPA significa infatti Indian Pale Ale, poiché destinata alla lontana colonia asiatica del Regno Unito.
Pizza e birra: la parola all’esperto
Per trovare il giusto accostamento tra pizza e birra, nelle loro rispettive varianti, ci affidiamo ai consigli di Andrea Garbini, socio e beer taster della Unionbirrai, associazione nata per rappresentare istituzionalmente i birrifici e produttori artigianali, oltre a svolgere una funzione divulgativa rivolta ai consumatori.
Questo è il risultato, riportato in forma testuale, di una nostra chiacchierata sfociata in una sorta di flusso di coscienza da parte di chi vive il mondo della birra come una passione in una realtà che, come abbiamo detto all’inizio, dovrebbe entrare in confidenza con le numerose possibilità offerte da questa bevanda, senza dover necessariamente sentenziare quale prodotto sia migliore o peggiore.
Prima di cimentarsi nella ricerca degli ingredienti e sapori più consoni ad una speciale tipologia brassicola, è importante precisare che la comunità birraria si è adeguata alla scuola vinicola, italiana e internazionale, che per prima ha introdotto i principi di abbinamento tra cibo e bevande. Sono quattro i parametri fondamentali da prendere in considerazione: similitudine, contrasto, territorio e tradizione. La similitudine si basa sull’accostamento di sapori affini, dolce con dolce, amaro con amaro, etc… Il contrasto opera invece sul bilanciamento di gusti in contrapposizione, come può essere il dolce con il salato. Tradizione e territorio sono ovviamente fortemente legati e si basano sull’abbinamento di prodotti facilmente reperibili in una data area e perciò ben radicati nella relativa cultura culinaria.
Un tipico esempio sono le ostriche, che sul territorio irlandese vengono tradizionalmente servite con una birra Stout. La pizza, data la forte prevalenza di carboidrati, propone una spiccata tendenza dolce. Quindi una birra dolce/maltata è l’abbinamento più semplice ed immediato da effettuare per similitudine. La presenza del pomodoro rappresenta un importante fattore discriminante per la componente acida che risulta non adeguata al gusto amaro. Questo porta a sfatare il mito della popolare pizza e birra chiara, le cui note maltate non sono in grado di coprire il netto sapore amaricante.
Le birre a bassa fermentazione, come precedentemente spiegato, nascono da un processo che dura settimane in cui i lieviti tendono a pulire il gusto, generando una bevanda chiara, scarica di sentori olfattivi e gustativi, dove il sapore del luppolo risulta spesso predominante.
Le birre Helles o Pilsner, servite nella stragrande maggioranza delle pizzerie dagli anni ’50 ad oggi, risultano quindi le meno adatte per una Margherita ed altre tipologie a base pomodoro. Quest’ultime dovrebbero invece essere servite con birre dai forti accenti maltati, come le belghe oppure le Weiss, Märzen, Bock e Doppelbock tedesche.
Tuttavia, non tutti sono disposti ad accompagnare la pizza con bevande troppo corpose e, soprattutto in estate, la soluzione beverina e dissetante rappresenta una scelta comprensibilmente preferibile. Inoltre, pur restando in ambito Lager, le Märzen e Doppelbock non sono di facile reperibilità, a meno di orientarsi verso specifici canali di distribuzione al di fuori dei supermercati, anche i più forniti. Una soluzione alla portata del consumatore medio la si può trovare nei birrifici che reinterpretano le Helles, già di per sé una versione tedesca della luppolata birra ceca Pilsner, rendendole più maltate e cercando di coprire il retrogusto erbaceo. Discorso analogo per le Keller/Zwickel, che già nello stile originale risultano un buon compromesso. Tuttavia, da una birra a bassa fermentazione risulta assai difficile annullare del tutto l’amaro.
Altra soluzione popolare la si può individuare nelle cosiddette birre rosse, termine improprio che indica quel tipo di birra che tenta di emulare, talvolta anche con risultati apprezzabili, le Dubbel belghe, ma meno impegnative. Anche una Bitter inglese potrebbe essere una curiosa opzione per la classica Margherita. A discapito del nome infatti, che in inglese significa “amaro”, questa birra inglese è una bevanda in cui il malto bilancia in modo consono il retrogusto erbaceo.
L’assenza di pomodoro permette invece di abbinare una pizza a soluzioni più aperte e fantasiose. La presenza di formaggi stagionati o affumicati richiama per similitudine un’altrettanto affumicata Rauch Bier (“rauch” in tedesco significa, appunto, “fumo”). Per i sentori tostati e leggermente affumicati, un’ottima scelta potrebbe ricadere anche sulle Stout e Porter.
Tuttavia, sempre restando Oltremanica, le IPA restano sovente una scelta ideale e di facile reperibilità per una classica pizza bianca, come ad esempio la “Salsiccia e friarielli” napoletana: la sensazione resinosa ed erbacea di questo stile brassicolo, molto diffuso ed apprezzato in questo periodo storico, trova una certa sintonia con i friarielli, mentre l’amaro, la frizzantezza e la carbonazione vanno a bilanciare ed a “lavare” il grasso della salsiccia.
È possibile stabilire un originale abbinamento nostrano, accompagnando salumi stagionati, affumicati e dai sapori generalmente importanti con una birra IGA. Questo acronimo, che significa Italian Grape Ale, nasce dall’aggiunta del mosto d’uva durante la fermentazione. Si tratta dell’unico stile brassicolo italiano riconosciuto dal BJCP (Beer Judge Certification Program), associazione che certifica gli stili delle varie nazioni.
In conclusione, in linea generale è importante considerare l’ingombro della pizza in termini di aromi. Una birra non dovrebbe mai prevaricare una pietanza con pochi condimenti o non particolarmente saporita. In questo caso è consigliabile evitare una bevanda troppo piena, rotonda o corposa. Al contrario, per una pizza con sensazioni gustative importanti, come carni, affettati o formaggi forti, è necessario scegliere una birra all’altezza, in grado di sostenere il peso dei sapori.