Farina, acqua, sale e lievito: da questi semplici ingredienti è nata una delle preparazioni più fortunate al mondo.
Figlia del pane, simbolo di artigianalità gastronomica e della cultura italiana, a partire da quella napoletana, la pizza è ormai un piatto fortemente globale, consumato in lungo in largo e soggetto ad un’evoluzione che pare senza fine.
E il più delle volte, quando un appassionato torna a casa da un’esperienza incredibile presso uno dei tanti maestri della pizza, il desiderio di poter replicare quella meraviglia anche in ambito domestico è forte, sincera e passionale.
Soprattutto oggi, con le moderne scoperte tecnologiche, il miglioramento della strumentazione e la diffusione di concetti e competenze, fare un’ottima pizza fatta in casa non solo è possibile, ma è anche molto più facile e accessibile che in passato.
Il mercato del food è in forte espansione ormai da anni, tanto che macchinari che un tempo era impensabile avere nella propria dimora oggi vengono studiati appositamente per il contesto domestico, garantendo agli appassionati risultati strabilianti e di alto livello. Ma fare una pizza fatta in casa perfetta è possibile anche senza disporre di attrezzatura da maniaci della farina, ve lo posso assicurare. Io stesso ho iniziato anni fa, dopo essermi innamorato vedendo i professionisti all’opera, solo con la forza delle mani e l’ausilio di un forno a incasso che impiegava più di un’ora per raggiungere i 250 °C, per poi disperdere il grosso del calore una volta aperto.
Certo, è necessario adattare la tecnica al contesto e individuare la tipologia più consona a una cottura in forno di casa, ma la vera discriminante sta nel comprendere il metodo, senza basarsi su una ricetta scaricata casualmente tra le tante presenti sul web.
Come dite? Di quale tipologia si parla? Vediamolo insieme.
La perfetta pizza fatta in casa
Analizziamo un classico contesto casalingo, vi va?
Abbiamo un forno a incasso, magari nemmeno ventilato, che raggiunge i 250 °C di temperatura al massimo; non disponiamo di un’impastatrice da banco e men che meno di una planetaria, ma solo di una ciotola capiente e delle nostre mani.
È possibile fare un’ottima pizza? Certo che si, ma per ovvi motivi non potrà essere una napoletana, che per le sue caratteristiche è definibile tale solo se prodotta con una cottura rapida e “violenta”, spesso superiore ai 400 °C, un valore che le permette di risultare morbida, scioglievole, di piegarsi a portafoglio e di mantenere la freschezza degli ingredienti della farcitura, i quali nei 60-90 secondi di permanenza in forno fanno appena in tempo a scaldarsi.
Certo, potremmo fare una semplice tonda, ma considerando le peculiarità di un forno a incasso sarebbe scarsamente ottimizzabile: la sezione sottile tenderebbe ad asciugare eccessivamente data la cottura prolungata, restituendo un prodotto poco vicino al concetto di “pizza perfetta fatta in casa”.
C’è una tipologia, tra tutte, che ben si presta ad essere realizzata in questi termini: la pizza in teglia alla romana.
La pizza in teglia alla romana
Nata nel dopoguerra, quando ai panettieri venne l’idea di prendere l’impasto del pane e cuocerlo in teglia dopo averlo condito, la teglia romana si caratterizza oggi per la sua base croccante e mollica morbida, alveolata e scioglievole al morso.
Negli anni ’80, l’esigenza di mantenere la pizza al taglio sul bancone per alcune ore e farla tornare croccante dopo averla riscaldata spinse alcuni professionisti romani, primi fra tutti Angelo Iezzi e successivamente Gabriele Bonci, a lavorare con impasti molto idratati, farine di forza e maturazioni/lievitazioni a temperature controllate.
L’impasto viene realizzato con farine ad alto assorbimento di acqua, poco lievito e sale, lunghe maturazioni (24/72 ore) in cella frigorifera. Viene cotta per circa 15 minuti a 280-330 °C in forno statico.
Perché è la miglior pizza replicabile in casa?
Perché anche in mancanza di forni professionali, un risultato ottimo e sorprendentemente vicino all’originale può essere ottenuto anche in un classico forno domestico con temperature tra i 250 e i 300 °C.
Ad essere importante è la comprensione del metodo e l’attenta selezione delle materie prime, due concetti fondamentali per garantire la realizzazione di un prodotto unico, standardizzabile e fortemente replicabile.
La farina
Prima o poi ce lo metteremo in testa, soprattutto in ambiente domestico: la farina è e sarà sempre l’ingrediente principe su cui si basa la realizzazione di ogni panificato.
Potrebbe sembrare un concetto scontato, eppure l’errore commesso nel 90% dei casi è quello di generalizzare, utilizzando una materia prima non adatta allo scopo.
La colpa, purtroppo, è anche del mezzo trilione di ricette presenti ovunque, tra web e libri, che riportano la dicitura “farina” e la sua dose, senza specificarne la tipologia, come se ne esistesse una sola o fossero tutte perfettamente sostituibili.
Motivo per cui l’utente medio legge le quattro righe riportate sul testo, si reca al supermercato, compra la prima cosa che gli capita a tiro, mischia a un po’ d’acqua e attende il miracolo.
Purtroppo non funziona proprio così, e anzi, se le cose fossero così semplici saremmo tutti pizzaioli, non credete?
Anzitutto, sebbene sia nata con l’utilizzo di farine di forza, oggi è opinione sempre più diffusa che la pizza in teglia alla romana abbia il suo rendimento ottimale con l’utilizzo di farine di grano tenero semi-integrali macinate a pietra naturale, con forza medio/alta (300-330 W); il risultato è un prodotto profumato, con sapori marcati, perfetti per una pizza di questo tipo dove la sezione è abbastanza importante.
Facciamo chiarezza su un paio di concetti: la normativa italiana distingue per il solo grano tenero cinque tipologie di farina, in relazione al grado di abburattamento (un setacciamento particolare del prodotto svolto durante il processo) e quindi alla resa della farina.
Ne avrete sicuramente sentito parlare: 00, 0, tipo 1, tipo 2 e integrale.
Badate bene, non si parla di salubrità o meno della farina, di presunti veleni, di miracoli dovuti dal consumo di integrale o altro; il quantitativo di fibre presenti all’interno della materia prima determina (se il prodotto è stato macinato con professionalità, rispettando il grano) un sapore marcato e caratteristico, e spesso aiuta anche l’assorbimento dei liquidi. Di contro, un prodotto integrale tenderà a sviluppare meno, e a dare una sensazione di leggerezza inferiore.
Tra le proteine presenti nel vostro pacchetto, due svolgono una funzione importantissima. Miscelandosi con l’acqua, la gliadina e la glutenina formano un complesso proteico fondamentale per tutto il processo: il glutine, che concorre alla formazione della cosiddetta maglia glutinica, un reticolato fitto ed elastico che trattiene le bolle di anidride carbonica sviluppate durante la lievitazione, facendo gonfiare il panificato.
Il comportamento della farina e del glutine è ben sintetizzato dal valore W presente nelle schede tecniche dei prodotti, e che denota la forza della farina stessa in funzione di tenacità ed estensibilità della maglia. Solitamente, più il W è alto più l’impasto reggerà lunghe maturazioni e lievitazioni e un quantitativo superiore di acqua.
Il tutto dipende dalla qualità della farina utilizzata: mettetevi in testa che, 90 su 100, se una farina non riporta il W è da considerarsi un prodotto non tecnico, scarsamente utilizzabile per i panificati. E ancora, spesso le poche marche che lo riportano e sono esposte al supermercato non sono di gran qualità, e vi complicherebbero solo l’approccio. E non è nemmeno sintetizzabile al 100% dal quantitativo di proteine, perché non tutte formano il glutine.
Oggi il mercato delle farine non è più come una volta: esiste un’infinità di prodotti adatta ad ogni scopo, nella maggior parte dei casi acquistabile nei vari store online. Perché quindi tapparci le ali, insistendo nell’utilizzare materie prime pessime, quando abbiamo a disposizione il miglior pacchetto di prodotti al mondo?
L’impasto
Dopo la farina, l’acqua è una parte fondamentale di qualsiasi impasto, e la sua quantità è una delle caratteristiche principali della pizza in teglia alla romana. Durante l’impastamento, l’energia cinetica ceduta alla maglia glutinica fa in modo di rafforzare e trasformare i legami delle proteine che la compongono, creando una struttura estesa, omogenea e tenace, che conferirà la struttura finale del prodotto, trattenendo l’aria liberata durante la lievitazione.
Un quantitativo di acqua superiore alla norma (tra il 75 e l’85% sul peso della farina) contribuisce ad agevolare la maturazione e incrementare la leggerezza del prodotto, che a parità di peso (per ovvie ragioni) sarà meno calorico rispetto a una pizza meno idratata.
L’acqua tuttavia può essere un’arma a doppio taglio, perché se non correttamente gestita e assorbita rimane “libera” nell’impasto, compromettendo la lievitazione ma soprattutto la cottura, e di conseguenza la digeribilità del prodotto finito.
Ingrediente fondamentale è poi il sale, non solo per conferire sapidità, ma soprattutto per garantire un miglior assorbimento dell’acqua e per rafforzare la maglia glutinica. Non va mai aggiunto a contatto con i lieviti perché ne distrugge la parete cellulare, sottraendo per osmosi acqua alla cellula.
La classica pizza in teglia alla romana viene poi realizzata mediante l’utilizzo di lievito di birra (Saccharomyces Cerevisiae) fresco (acquistabile solitamente in cubetti da 25gr) o secco (in rapporto di 1/3 rispetto al fresco). La funzione dei lieviti è quella di nutrirsi degli zuccheri dell’impasto, producendo fra le altre l’anidride carbonica che fa gonfiare il semilavorato. La sua quantità dipende da diversi fattori, come il tipo di lievito, la sua freschezza, l’idratazione dell’impasto, temperatura e umidità esterne e la presenza di grassi.
Perché non il lievito madre dite?
Perché utilizzarlo in casa non è così semplice come si possa pensare anzitutto: la sua gestione richiede continui rinfreschi, in mancanza dei quali il lievito non è produttivo al 100% e comprometterebbe la struttura della pizza. Secondariamente, i bonus conferiti dal lievito madre (struttura, sapore e “shelf-life”) sono inutili in un prodotto dalla sezione non importante come nel pane e nel panettone, coperto di ingredienti e che vi magnate seduta stante.
E no, il lievito di birra non è indigesto, nella maniera più assoluta. Smontiamo questa malsana credenza, vi prego.
I grassi, per la pizza in teglia alla romana, sono facoltativi. Nonostante infatti la ricetta originale preveda l’utilizzo di olio extravergine di oliva nella misura del 3% sul peso della farina, il suo contributo è praticamente irrisorio, e se non aggiunto con cautela rischia di rovinare la struttura del semilavorato.
La ricetta della pizza fatta in casa in teglia
Apprese le nozioni fondamentali, vediamo insieme i passaggi per realizzare una teglia romana fumante e profumata.
E quale modo migliore di gustarla, se non sfornando una margherita fatta con criterio, la pizza italiana più rappresentativa?
Leggenda narra che venne preparata nel Giugno 1889 dal cuoco Raffaele Esposito in onore della regina Margherita di Savoia in visita a Napoli…ma in realtà si tratta appunto di una leggenda di cui vi parleremo prossimamente, perché esistono testimonianze in tal senso già nel secolo precedente, e sempre nella città partenopea.
Ad ogni modo la dolcezza dei pomodori pelati schiacciati a mano, la cremosità della mozzarella fiordilatte, la freschezza balsamica del basilico e il gusto intenso e avvolgente dell’olio extravergine di oliva l’hanno resa famosa in tutto il Mondo.
Per l’impasto (dosi per 3 teglie 30×40):
– 1 kg di farina di grano tenero di tipo 1 macinata a pietra naturale (300-320 W)
– 750 gr di acqua (75% sul peso della farina)
– 20 gr di sale fino o integrale (2% sul peso della farina)
– 5-10 gr di lievito di birra fresco (5 in estate, 10 in inverno)
Per la farcitura:
– Pomodoro San Marzano DOP dell’Agro Sarnese-Nocerino
– Mozzarella fiordilatte
– Basilico fresco
– Olio extravergine di oliva
Impastamento
Si scioglie il lievito in un bicchiere dell’acqua della ricetta, e si aggiunge l’acqua nella farina man mano, solo quando la precedente è perfettamente assorbita.
Dopo aver aggiunto circa i 2/3 dell’acqua si aggiunge il sale, per poi continuare fino ad aver esaurito l’acqua prevista. Terminato l’impastamento, si trasferisce sul piano e lo si chiude di pagnotta, ripiegandolo su sé stesso 3 o 4 volte ogni 10-15 minuti.
Il risultato deve essere una forma liscia, uniforme, asciutta e ad una temperatura di almeno 24 °C.
Si ripone in un recipiente unto di olio a temperatura ambiente (20-24 °C) per circa 2 ore.
Nota bene: l’impastamento può essere eseguito sia a mano che per mezzo di una planetaria o di un’impastatrice professionale; l’ordine e le modalità di inserimento degli ingredienti non cambiano.
Puntata
Trascorse le 2 ore, si ripiega nuovamente l’impasto e lo si ripone con il contenitore in frigorifero a 4-6 °C per 24 ore. In questa fase l’impasto matura, cresce verso l’alto e la maglia glutinica si stabilizza.
Staglio
Trascorsa la puntata, si riprende l’impasto e lo si porziona nei pesi desiderati, adatti alla misura delle teglie dove verranno cotti. Si posizionano le pagnotte in recipienti unti o in una cassetta di lievitazione.
Vengono solitamente calcolati, in riferimento alla teglia, mezzo grammo per ogni cm² di teglia; per una classica 30×40 quindi si tiene conto di circa 600 gr di impasto.
Appretto
Durante lo staglio l’impasto viene manipolato, i lieviti ridistribuiti e la maglia glutinica rinforzata. Lo scopo dell’appretto è quello di rendere possibile l’ultima lievitazione e maturazione, oltre a permettere l’estensibilità necessaria alla stesura. L’impasto viene quindi riposto a temperatura ambiente (20-24 °C) per 4-6 ore.
Stesura
La stesura si effettua ribaltando il panetto su una superficie cosparsa di semola rimacinata di grano duro, che diminuisce l’attrito con il piano di lavoro e in cottura conferisce sapore.
Dopo aver infarinato anche la parte superiore della massa, si preme delicatamente con l’ultima falange delle dita, spingendo l’aria che allargherà piano piano l’impasto. Si procede prima sui bordi poi nella sezione centrale, fino a quando la forma non sarà indicativamente larga circa i 2/3 della superficie della teglia; a questo punto la massa viene caricata sull’avambraccio, scrollata della farina in eccesso e adagiata sulla teglia stessa precedentemente spennellata con dell’olio. Si allargano poi tutti i lembi, portandoli adiacenti al bordo, fino a stesura ultimata.
Farcitura
Per la margherita, è sufficiente stendere un velo di pomodoro su tutta la base, anche sui bordi (la teglia romana non prevede il cornicione), stando attenti a non toccare la teglia in quanto potrebbe risultare difficile staccare la pizza.
Non esagerate con il pomodoro all’inizio, meglio assicurare lo sviluppo in cottura per poi aggiungerlo in un secondo momento.
Un filo d’olio e siamo pronti per infornare.
Cottura
Nei forni casalinghi è necessario preriscaldare al massimo in modalità statica, per poi passare preferibilmente alla ventilata, attendere nuovamente il raggiungimento del massimo e infornare con la teglia a contatto con il pavimento.
Una volta che la base è ben colorata, la pizza viene tolta, si aggiunge il pomodoro rimanente e si trasferisce sotto la resistenza superiore fino al raggiungimento della doratura superficiale.
Gli ultimi due minuti mettete del fiordilatte tagliato a listarelle e lasciate fondere; deve rimanere cremoso, non bruciare, mi raccomando.
A cottura ultimata, la teglia viene sfornata, completata di basilico fresco e olio EVO, e adagiata su una griglia rialzata per farla asciugare e raffreddare, impedendo il raffermamento.
Vi è piaciuto questo articolo? Vi ricordiamo che ce ne sono tanti altri nella nostra sezione di Pizza fatta in casa, powered by lievitamente – il Festival della Pizza fatta in Casa.
[Crediti: Giovanni Tesauro, Fabrizio Casucci, Piergiorgio Giorilli, Dario Bressanini]