Quando Domino’s sfidò la patria della Pizza (e perse)
Il lancio, l'idea e gli obiettivi di chi ha provato a portare l'America in Italia
Rubrica di Tommaso Stio — 2 mesi fa
Nel nostro Paese ricco di contraddizioni, convivono due anime, spesso in apparente conflitto ma entrambe profondamente radicate: da un lato quella tradizionalista, orgogliosa custode delle ricette della nonna, dei riti della tavola e del culto della territorialità; dall’altro quella “globalista”, urbana e curiosa di sperimentare nuovi sapori e format. Non si tratta di una questione anagrafica ma di un’apertura, di uno slancio innato o coltivato nel tempo, verso il mondo esterno, la logica del viaggio e delle contaminazioni. In un mondo profondamente globalizzato e consumista, dove il successo di un’attività può essere deciso da un trend su TikTok o da una shitstorm su YouTube, si fa fatica a parlare di tradizione.
Girando per Milano capita ancora spesso di vedere dei piccoli negozi con l’insegna Domino’s Pizza all’esterno: locali posizionati in zone strategiche, ben collegate e residenziali, che ricordano la sconfitta della Pizza con il logo rosso e blu nel nostro Paese.
Le opportunità per investire in Italia, però, ci sono sempre state e sono cambiate nel tempo, così com’è cambiato il gusto e il desiderio di provare cose nuove da parte nostra. Nel 1986 è stato il turno di Mc Donald’s, con la prima storica apertura in Piazza di Spagna a Roma, nel 1999 di Burger King con l’iconica sede in Via Torino a Milano; a seguire nel 2014 l’arrivo a Roma Termini di KFC e, più recente, il lancio di Starbucks nel 2018 con la Reserve Roastery in Piazza Cordusio a Milano, all’interno di un palazzo storico della città.
In mezzo a questi grandi marchi, Domino’s Pizza, che ha annunciato nell’ottobre 2015 il lancio del franchising in Italia, con il primo punto vendita a Milano. Un lancio che si ricollega a quelli sopracitati poiché promosso da ePizza S.p.A., guidata all’epoca da Marcello Bottoli e Alessandro Lazzaroni, ex Mc Donald’s e Galbusera, adesso CEO di Crazy Pizza, il brand nato da un’idea di Flavio Briatore. Per capire però che cosa non ha funzionato in Italia e come si è potuti passare dall’obiettivo di aprire oltre 800 pizzerie entro il 2030 all’istanza di fallimento depositata 7 anni dall’apertura, occorre fare un passo indietro
Domino’s Pizza in America
Da molti anni, negli Stati Uniti Domino’s rappresenta molto più di una catena di pizzerie: è un modello industriale applicato al cibo, un modello che funziona. La sua forza non è mai stata la qualità della pizza in senso tradizionale (ingredienti ricercati, abbinamenti speciali o lievitazioni particolari) quanto la capacità di garantire rapidità, standardizzazione e capillarità. Fondata nel 1960 in Michigan, l’azienda ha costruito il proprio impero su due pilastri: il delivery veloce — già negli anni Ottanta nacque il celebre slogan “30 minutes or it’s free” che ha reso iconico il marchio — e la tecnologia, con piattaforme digitali di ordinazione pionieristiche che oggi rappresentano oltre il 70% delle vendite. Negli USA Domino’s è percepita come un’alternativa pratica e conveniente, più vicina al concetto di fast food che a quello di ristorante: un prodotto standard, replicabile ovunque, pensato per accompagnare partite di football, serate studentesche o pranzi di lavoro rapidi.
Questa combinazione di efficacia ed efficienza ha reso Domino’s una macchina quasi infallibile sul mercato americano e capace di far fronte alla concorrenza di altre catene simili (Pizza Hut tra tutte) e più in generale del settore sempre più popolato dei fast food. Domino’s conta oggi oltre 6.800 punti vendita solo sul territorio americano e più di 20.000 nel mondo, con un fatturato globale che nel 2023 ha superato i 4,5 miliardi di dollari. In Borsa invece, l’azienda quotata nel 2004 a poco più di 14 dollari per azione, ha raggiunto nel 2021 il suo massimo storico oltre i 560 dollari, facendo fruttare così centinaia di migliaia di dollari a coloro che fin dall’inizio hanno creduto nella pizza americana.
Domino’s Pizza in Italia
In Italia, quella stessa formula che oltreoceano si era rivelata vincente ha mostrato immediatamente i suoi limiti. Il modello Domino’s, basato su standardizzazione e rapidità, si è scontrato con un mercato in cui la pizza non è percepita come un semplice pasto veloce, ma come un simbolo identitario, parte integrante della cultura e della socialità. Anche a Milano, la città più globalizzata e aperta alle influenze internazionali, puntare quasi unicamente sull’efficienza logistica non è stato sufficiente. Non si tratta solo di gusto: per gli italiani, andare in pizzeria con amici, famiglia o partner è un rituale, un’esperienza con i suoi codici e valori. La continua attenzione a impasti, lievitazioni e qualità degli ingredienti è ciò che i clienti cercano quando ordinano la loro pizza preferita. Domino’s, replicando in serie un prodotto pensato per accompagnare una partita di football o una serata universitaria, ha cozzato con le aspettative di un pubblico abituato a scegliere la pizzeria di quartiere o a esplorare nuove proposte in città. Nonostante investimenti e campagne marketing mirate, il marchio rosso e blu è finito per rappresentare più un esperimento di americanizzazione che una reale alternativa alla tradizione.
Il fallimento di Domino’s in Italia si è consumato rapidamente. In sette anni la catena ha aperto 29 punti vendita tra il centro e il nord del Paese e, nel tentativo di avvicinarsi ai gusti locali, ha introdotto ingredienti come la mozzarella di bufala nelle aggiunte “premium” e promosso campagne di fidelizzazione aggressive: sconti sulla consegna, pizza gratis ogni 10 ordini e promozioni ricorrenti. Tutti tentativi percepiti spesso come poco autentici. La bufala sembrava più un vezzo commerciale che un reale impegno sulla qualità, mentre le strategie promozionali si scontravano con l’idea italiana di pizzeria come luogo di esperienza e relazione.
Nel 2022 Domino’s Italia dichiara ufficialmente fallimento, lasciando quasi 11 milioni di euro di debiti e ponendo fine al sogno di conquistare la patria della pizza. La parentesi italiana, durata appena sette anni, nasce con l’ambizione di aprire centinaia di punti vendita e si chiude con la ritirata silenziosa di un marchio incapace di inserirsi in un mercato dominato dalla tradizione e animato da un fermento creativo che guarda all’innovazione con occhi diversi. La parabola italiana di Domino’s è emblematica: replicare un modello di successo internazionale non basta per vincere…ma è stata solo una questione di gusto?
A determinare il fallimento di Domino’s Italia sono state tre concause principali, strettamente intrecciate tra loro.
Innanzitutto la concorrenza diffusa e di qualità: le pizzerie italiane sono ovunque, spesso a pochi passi l’una dall’altra, e offrono ottimi prodotti a prezzi accessibili. Per un consumatore italiano, trovare una pizza buona non è un’impresa, ma spesso la normalità. La seconda causa è stata la percezione di un prodotto americano poco autentico. Nonostante tentativi di glocalizzazione come l’introduzione della mozzarella di bufala o di altri ingredienti locali, agli occhi dei nostri concittadini Domino’s è rimasta un brand straniero, associato a un modello di consumo rapido e impersonale, lontano dall’idea di pizzeria come luogo di condivisione e piacere gastronomico. Le campagne promozionali, tipiche della logica del fast food, hanno accentuato questa distanza, facendo percepire l’insegna più come un esperimento commerciale che come un’alternativa seria alla tradizione.
La terza causa infine ha riguardato il rapporto culturale con la pizza, considerata dagli italiani non solo un alimento ma una vera e propria esperienza. Andare in pizzeria è un rito sociale, un momento di convivialità e piacere da vivere lentamente; un prodotto pensato unicamente per la consegna rapida e fuori dalle logiche e dai sistemi di delivery che stavano esplodendo in quegli anni (Domino’s usava un’app proprietaria), non ha potuto sostituire questa dimensione.
Queste tre cause probabilmente sono state amplificate da errori di gestione da parte di chi ha preso in mano il franchising in Italia, ma oramai il dado è tratto e Domino’s nel Bel Paese è solo un nome che echeggia tra i profumi della pizza.
D’altronde e nonostante contraddizioni, consumi a volte discutibili e pizzerie che non sempre brillano per qualità, la pizza in Italia resta qualcosa di più di un semplice business, supportato da tre pilastri su cui il brand a stelle e strisce, alla fine, non è riuscito a incidere: <identità, cultura e tradizione.
