La reazione di Maillard: avete notato che ogni volta che qualcuno fa un discorso di chimica in cucina la si tira sempre in ballo? Non è un caso, dal momento che si tratta di una delle reazioni chimiche più studiate di sempre, con fiumi di articoli accademici che potrebbero riempire da soli una biblioteca nazionale.
Per chi non l’avesse mai sentita nominare, si tratta di una serie di processi chimici di trasformazione degli alimenti durante la cottura che sono responsabili della produzione di una complessa varietà di aromi e sapori. Si applica particolarmente con pesce e carne, uova, caffè e cacao, birra, pane e, ovviamente, la nostra amata pizza.
È talmente onnipresente nella nostra vita quotidiana che neanche ci rendiamo conto di quanto sia fondamentale. La reazione di Maillard accompagna le nostre esistenze in pratica da quando l’uomo di Neanderthal ha imparato a cuocere la carne sul fuoco. Ma solo dal secolo scorso vengono intensamente studiati i processi chimici che sono alla base di quella che è molto più di una semplice reazione. Precisamente dal 1912, anno in cui il chimico e medico francese Louis Camille Maillard pubblicò il primo di una serie di articoli che trattava dei suoi studi sugli amminoacidi e gli zuccheri. Da quel momento il mondo della scienza alimentare non sarebbe stato più lo stesso.
Noi vogliamo rendere omaggio a questo geniale scienziato: vi raccontiamo la sua storia, com’è arrivato alla sua scoperta, e come i suoi studi abbiano rivoluzionato, e rivoluzionino tutt’oggi, il modo in cui concepiamo e consumiamo il cibo.
Chi era Maillard
Louis Camille Maillard nacque il 4 febbraio 1878 a Pont-à-Mousson, una piccola città della Lorena. Fin da giovane aveva mostrato spiccate doti per le materie scientifiche, tanto da riuscire a farsi ammettere alla Facoltà di Scienze dell’Università di Nancy ad appena 16 anni. Qualche anno dopo si iscrisse a medicina, ed entrò subito nel mirino dei più illustri insegnanti dell’epoca, che videro nel giovane scienziato un valido contributo alla ricerca: già a 20 anni presentò una dissertazione accademica a un congresso internazionale di Cambridge, a 22 anni divenne capo dipartimento della facoltà.
Prima di dedicarsi agli studi chimici che lo hanno fatto passare alla storia, Maillard diede un notevole contributo in campo medico occupandosi di malattie renali, ottenendo numerosi riconoscimenti. Ma il nostro scienziato era governato da un’indomabile sete di sapere: nella sua carriera si occupò anche di zoologia, filosofia, e fu persino un esperantista. Nonostante ciò, non passò tutta la sua esistenza all’interno delle mura universitarie: durante la Prima Guerra Mondiale si arruolò nell’esercito francese, ottenendo persino la Legione d’Onore.
A un certo punto Maillard si dedicò agli studi sul metabolismo cellulare, nel tentativo di riprodurre la sintesi proteica in laboratorio. E fu in quell’occasione che pubblicò la sua prima ricerca sulle reazioni intercorrenti tra gli amminoacidi e gli zuccheri presenti nelle cellule.
Action des acides aminés sur les sucres: formation des mélanoïdines par voie méthodique vide la luce nel 1912: fu il primo di una serie di studi su quella che verrà poi conosciuta comunemente come reazione di Maillard.
Maillard si dedicò tantissimo a questi processi chimici, ma non aveva idea dello sviluppo che questi avrebbero avuto in campo alimentare: essendo un medico, il suo interesse era principalmente rivolto all’utilizzo che se ne sarebbe potuto fare nella cura di malattie come il diabete. Fu solo alla fine degli anni quaranta che molti scienziati cominciarono a tornare sui suoi studi, utilizzando l’espressione reazione di Maillard per la prima volta.
Tra questi, il chimico americano John E. Hodge, che nel 1953 pubblicò una ricerca che divenne la più popolare sul tema: Dehydrated Foods, Chemistry of Browning Reactions in Model Systems. Hodge delineò il procedimento in tre fasi in cui si svolge la reazione di Maillard, e ancora oggi il suo paper è quello più citato negli studi sul tema (anche più di quelli di Maillard stesso). La reazione di Maillard è così popolare da essere diventata quasi una branca a se stante della chimica: numerosi scienziati dedicano gran parte del loro tempo allo studio di un fenomeno che non è ancora del tutto compreso a causa della sua complessità, e che si applica a diversi campi della scienza, oltre che nell’industria alimentare (il processo viene usato anche per aumentare la shelf-life di molti prodotti).
Tanto è vero che nel 2005 è stata creata un’associazione no profit, l’International Maillard Reaction Society (IMARS), che accoglie i maggiori studiosi del campo, e organizza ogni tre anni un simposio internazionale per l’incontro di queste figure. Quello del 2012, per festeggiare i 100 anni dalla scoperta, si è tenuto proprio tra Nancy e Pont-à-Mousson, nei luoghi legati allo scienziato.
Tra i massimi studiosi della reazione di Maillard, anche il biochimico e chimico alimentare italiano Vincenzo Fogliano, che è stato in passato in cattedra all’Università Federico II di Napoli per venti anni, prima di trasferirsi all’Università di Wageningen in Olanda: Fogliano ha pubblicato più di 30 paper sul fenomeno chimico, ed è stato lui stesso presidente dell’IMARS.
Che cos’è la reazione di Maillard
Ma in che cosa consiste la reazione di Maillard? Prima di tutto occorre specificare che non si tratta di una sola reazione, ma di una sequenza di reazioni a cascata. Questi processi chimici si attivano con l’interazione tra le catene di amminoacidi, che vanno a formare le proteine, e una particolare categoria di zuccheri detti non riducenti (ne esistono di diversi tipi, come il glucosio o il fruttosio). I processi sono attivati dall’aumento della temperatura, che avviene appunto durante la fase di cottura: specificamente a partire dai 120°, e fino ai 180°.
Durante il tempo di cottura, si attivano migliaia di reazioni molecolari, e ognuna di esse contribuisce allo sviluppo di una diversa gamma di odori e sapori: queste dipendono fortemente dal tipo di proteine e di zuccheri presenti nell’alimento di partenza, ma anche da altri fattori, come la quantità di acqua presente in esso, il ph del cibo, e le micro-variazioni di temperatura nell’ambiente esterno. L’abilità di controllo di un processo chimico così fondamentale in cucina è ciò che rende famosi i più grandi chef molecolari, capaci di donare ai loro piatti una varietà di sapori fuori dal comune.
La reazione di Maillard è anche nota per il cosiddetto effetto dell’imbrunimento non enzimatico: l’alimento assume una tonalità più scura in superficie, non a causa dell’ossidazione (come quando una mela marcisce, ad esempio), ma per via dell’alterazione molecolare causata dall’aumento della temperatura. Tra l’altro questa attività non si riflette solo sul modo in cui la luce viene riflessa, cambiando colore al cibo; è anche responsabile di quella deliziosa crosticina abbrustolita che si genera sulle carni o, nel caso del pane, della trasformazione della parte esterna da impasto morbido a crosta.
E qui va chiarito un equivoco piuttosto comune: la reazione di Maillard non ha niente a che vedere con l’effetto di caramellizzazione degli zuccheri a cui si dà il merito di conferire al cornicione della pizza quel colore ambrato. O, per essere più specifici, non sono la stessa cosa. Si tratta infatti di due processi chimici differenti, ma che hanno risultati simili, e per questo vengono spesso confusi l’uno con l’altro.
La reazione di Maillard avviene ad alte temperature con l’interazione tra proteine e zuccheri. La caramellizzazione avviene invece solo in presenza di zuccheri, che con l’aumento del calore reagiscono con l’acqua dando il via a un processo chiamato idrolisi. Anche in questo caso la reazione sviluppa aromi e sapori intensi, oltre che cambiare colorazione al composto che si andrà a creare. La caramellizzazione può avvenire in concomitanza della reazione di Maillard, ed è proprio la combinazione tra i due processi che crea un connubio di aromi e sapori che si influenzano a vicenda a seconda della quantità di zuccheri e proteine presenti nell’alimento.
La reazione di Maillard sulla pizza
Nella pizza, l’esempio più evidente della reazione di Maillard è nella colorazione e formazione della parte esterna dell’impasto: il cornicione, appunto.
Occhio, però: perché se le temperature eccedono, non solo l’imbrunimento si tramuterà in bruciatura – a causa di un ulteriore processo di rottura dei composti chiamato pirolisi – ma si cominceranno anche a produrre i composti mutageni, che potrebbero essere nocivi (in grandi quantità) per la salute. Tra questi l’acrilammide, che viene segnalato come potenziale cancerogeno: vi ricordate la famosa puntata di Report, che non rese un bel servizio alla pizza napoletana?
Ma la sottolineatura su potenziale è d’obbligo.
In realtà gli studi condotti su esseri umani hanno fornito prove limitate e discordanti dell’aumento del rischio di sviluppare tumori; sono gli studi sugli animali che hanno dimostrato che l’esposizione all’acrilammide possa aumentare la probabilità di insorgenza (ne parliamo approfonditamente in questo articolo). Per questo motivo si consiglia di ridurre l’esposizione a questo composto. Oltre al fatto che una pizza bruciata non piace a nessuno.
E qui ci sarebbe da chiedersi: ma se la reazione di Maillard si ottiene fino ai 180°, e oltre si producono sostanze nocive, com’è possibile che questa possa avvenire in maniera sicura con la pizza napoletana, esposta a temperature oltre i 400°? La risposta sta nel fatto che l’impasto contiene un’elevata quantità d’acqua, e il processo d’evaporazione di quest’ultima assorbe molta dell’energia termica tenendo il prodotto a una temperatura più bassa dell’ambiente in cui viene cotto.
Un effetto collaterale della reazione di Maillard è anche la creazione di spiacevoli macchie scure sulla mozzarella: quella puntinatura, che può essere scambiata con bruciatura, altro non è che l’effetto di imbrunimento che occorre perché il formaggio usato presenta ancora quantità eccessive di lattosio o galattosio (altri zuccheri riducenti). Il lattosio è un disaccaride composto da due monosaccaridi: glucosio e galattosio. Generalmente nel processo di produzione della mozzarella si riduce il livello di questi zuccheri con la fermentazione dei microrganismi che eliminano il glucosio dal lattosio, per poi lavare via il galattosio che avanza. Il processo non è completo, e lascia comunque quantità residue di zuccheri: quando queste eccedono, il formaggio a pasta filata tende a “bruciarsi” nel forno.
Dietro il nome di una reazione così spesso nominata nelle conversazioni sulla pizza si nasconde in realtà un mondo fatto di complessi procedimenti chimici, che anche a cercare di sintetizzarli in due parole non renderebbero giustizia alla mole di studi che sono stati effettuati in diversi campi. Qui ci siamo limitati a dare una piccola panoramica. Il nostro intento era rendere omaggio a Maillard, un grande studioso la cui figura e la vita forse non sono popolari come quelle di altri personaggi che hanno fatto la storia della scienza. Ma il cui nome è da oltre un secolo sulla bocca di tutti. Letteralmente.