Smettiamola di dire che le Pizzaiole sono “belle e brave”
Quello che sembra un innocuo complimento è in realtà un'espressione paternalista che sminuisce la professionalità delle donne.
Rubrica di Giuseppe A. D'Angelo — 5 mesi fa
Qualche giorno fa mi è capitato di vedere su Instagram un video condiviso da una pizzaiola che, assieme ad altre due colleghe donne e un pizzaiolo, ha partecipato a un talk di un evento gastronomico (i nomi dei professionisti e dell’evento non sono rilevanti ai fini di questa narrazione).
In questa clip il moderatore del talk evidenzia la presenza femminile tra i protagonisti, e come la loro organizzazione si impegni da tempo a valorizzare il ruolo delle donne nelle cucine. E fin qui tutto lodevole. Se non fosse che nel parlare delle tre professioniste a un certo punto dice “tutte e tre belle e brave”.
Mi sono cascate le braccia. Dio santo. Luglio 2025 e siamo ancora qui a parlare delle donne “belle e brave”.
E io lo so che nella mente di chi si esprime così c’è la volontà di fare un complimento innocente, gentile, da vero galantuomo. Ma non vi sembra un filino filino paternalista? Che dite? Sono pesante io? Ok, allora prima di spiegare perché, secondo me, questa cosa sia sbagliata da più punti di vista, facciamo un gioco e ipotizziamo scenari alternativi.
Avete mai sentito un moderatore di questi eventi presentare un gruppo di professionisti uomini come “tutti belli e bravi”? No? Che strano, eh?
E se non si fosse trattato di un talk di pizzaiole, ma di un evento che radunasse delle politiche, delle magistrate, delle scrittrici… cosa avreste pensato se fossero state presentate come “belle e brave”? Un po’ fuori luogo, non trovate?

Qui si crea il corto circuito: un complimento relegato esclusivamente a un genere, e per una categoria lavorativa percepita, non si sa perché, come inferiore. Un doppio standard al quadrato.
Mi si potrebbe obiettare: “sì, ma se fosse stata una donna a presentare il talk e avesse detto la stessa cosa, non te la saresti presa così, no?”. Notizia bomba: la parità di genere funziona anche al contrario. Solo che in quel caso non avrei detto che si tratta di un’affermazione paternalista, ma semplicemente stupida.
Che una donna che è lì a presentare il proprio lavoro sia bella, è totalmente irrilevante. Fermo restando che quello di bellezza è un concetto arbitrario, ai fini del discorso non aggiunge assolutamente nulla. Anzi, quasi diventa un demerito per quelle professioniste che faremmo fatica a far rientrare negli standard estetici canonici. Una pizzaiola ultrasessantenne, con le rughe, i capelli bianchi e un po’ sovrappeso è meno capace di una pizzaiola “bella”?
Ancora peggio è sottolineare che siano “brave”. Ci mancherebbe pure che non lo fossero, le hai invitate a parlare in un talk! Oppure mi stai dicendo che si trovano lì solo perché indossano un reggiseno invece dei boxer? E guarda caso – che fortuna! – sono pure competenti?

“Belle e brave” è quell’espressione innocente mascherata da complimento che si usa quando si vuol far pesare l’autorevolezza del proprio giudizio dall’alto di un piedistallo di presunta superiorità. Non a caso ho utilizzato il termine “paternalista”: è esattamente la stessa espressione che un genitore o un insegnante utilizzerebbe nei confronti di un bambino. Anzi, di una bambina: perché, se ci pensate un attimo, anche a quell’età è difficile che di un maschietto si sottolinei l’aspetto, limitandosi a evidenziare il fatto che non sia una peste che ti distrugge casa. Le bambine invece sono sempre belle e brave, che è il ruolo che gli si deve cucire addosso da portare avanti tutta la vita.
Chiariamoci, non sto dicendo che chi utilizza un’espressione del genere lo stia facendo con tutta la malizia di cui sopra. Né mi sentirete utilizzare definizioni ormai abusate come “patriarcato interiorizzato”, che lascio volentieri a chi porta avanti battaglie non concilianti tra i generi. La questione è molto più semplice: è un’abitudine. Una pessima abitudine, però, che dobbiamo cercare di scrollarci di dosso.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando le pizzaiole e le cheffe erano ancora degli unicorni che andavano scovati negli angoli più remoti del pianeta. La loro presenza mediatica, e di conseguenza la loro autorevolezza, si è intensificata nel corso degli ultimi anni. E questo è merito anche di progetti di comunicazione mirati che ci hanno portato a passare dai listoni collettivi dell’8 marzo a focus dedicati al lavoro di tantissime professioniste.
Su queste pagine, ad esempio, abbiamo riservato ampio spazio a progetti come la trasmissione PizzaGirls, e vari editoriali sulla questione di genere nel mondo pizza dando rilevanza al ruolo delle sue protagoniste. Ma non posso non nominare tanti altri luoghi di discussione che hanno contribuito all’approfondimento del tema.
Il Gambero Rosso ha intrapreso un’intera rubrica sulla parità di genere nei settori dell’enogastronomia, intervistando numerose donne che svolgono il proprio lavoro soprattutto con ruoli di leadership.
50 Top Pizza, in occasione del World Pizza Summit tenutosi l’anno scorso all’interno dello European Pizza Show di Londra, ha ospitato un panel sull’argomento presenziato da pizzaiole di diversi paesi (tra cui la nostrana Roberta Esposito).
Panel dello stesso tenore si sono tenuti anche all’interno del Campionato Mondiale della Pizza di Parma: evidenzio tra gli altri quello del 2024 con la cheffe italo-congolese Victoire Gouloubi, in cui oltre alle tematiche di genere si sono affrontate anche questioni inerenti a differenze culturali e di etnia. Nello stesso anno, inoltre, il campionato ha visto vincitrice proprio una pizzaiola donna: Giulia Vicini, supportata dalla collega e amica Giulia Zanni.
Insomma, è un argomento caldo, che a mio parere necessita ancora di essere dibattuto. A differenza di quello che scrissi anni fa, in cui sostenevo che fosse diventato ridondante, ho fatto ulteriormente marcia indietro quando mi sono reso conto, parlando con varie professioniste, che ci sono ancora numerose questioni da sviscerare.
E, badate, non si tratta per forza di questioni sulla discriminazione di genere (che in molti contesti, per fortuna, nemmeno si presenta). Parliamo di temi che abbracciano vari campi: dalla valorizzazione delle comunità di donne nei contesti più marginalizzati, alle opportunità create da una dirigenza femminile in un contesto aziendale, finanche a problematiche come la gestione dell’equilibrio vita-lavoro e il rischio di burnout.
Tematiche profonde, che possono essere abbracciate trasversalmente da entrambi i generi, ma che sicuramente in molti casi possono beneficiare di un punto di vista femminile per questioni specificamente legate ai ruoli delle donne nella società. Ruoli che stiamo ridefinendo, grazie non solo al lavoro di tantissime professioniste e professionisti, ma anche a un ottimo processo di divulgazione da parte della stampa di settore. Per questo non posso non storcere il naso quando sento un’espressione così retrograda come quella delle pizzaiole “belle e brave”. Soprattutto in un contesto – gliene dò atto agli organizzatori dell’evento – come quello emerso nella clip: tre donne e un uomo. Un talk che mischia i generi, che non ghettizza le donne in quanto tali, ma che le mette a confronto con i colleghi uomini in egual misura. Proprio perché, e mi sembra superfluo ribadirlo, quando si tratta di discutere del proprio lavoro il genere è totalmente ininfluente: conta la competenza.
Perché le pizzaiole a cui ci stiamo rivolgendo non sono solo donne: sono professioniste. Non dimentichiamolo.