Il fallimento di Domino’s in Italia non racconta nulla di nuovo

ecco gli altri paesi europei dove il colosso americano ha gettato la spugna

Rubrica di Giuseppe A. D'Angelo — 2 anni fa

Domino’s chiude tutti i suoi punti vendita in Italia e la notizia tiene banco sui giornali nazionali e stranieri per giorni. Senza neanche troppe sorprese, la maggior parte dei titoli recita a caratteri cubitali che “la pizza con l’ananas americana non può reggere il confronto con la tradizione italiana“, e il messaggio che spesso è passato è che li abbiamo praticamente cacciati dal nostro paese con fiaccole e forconi.

Le cose naturalmente non stanno così. Prima ancora che tutte le testate dessero rilievo alla faccenda – tra cui la celeberrima Bloomberg che le ha dedicato ampio spazio – sapevamo già quali fossero le cause di questo declino. Food Service aveva diffuso per prima la notizia della chiusura in totale silenzio dei rimanenti Domino’s italiani con una breve agenzia. E a partire da quelle poche righe Dario De Marco ha fatto un’ottima ricostruzione della vicenda su Dissapore, ricordandoci dell’istanza di fallimento presentata lo scorso aprile al tribunale di Milano.

Così come gli improbabili servizi video sulle reazioni degli italiani che non tollererebbero questa infame invasione colonizzatrice dichiarando il benservito all’azienda americana non sono per niente rappresentativi di una realtà che invece ha visto Domino’s fare affari per 7 anni in Italia senza colpo ferire, con lungimiranti piani di crescita. Sul reale impatto culturale del marchio nel nostro paese ne ho parlato in una mia newsletter.

A distanza di due settimane non sono ancora state rilasciate dichiarazioni ufficiali da ePizza, l’azienda che gestisce il master franchise del marchio in Italia. Per cui, ancora non ci è dato sapere niente sulle sorti della catena. Questo silenzio è indubbiamente anomalo, ma non sono anomale le ragioni che hanno portato alla motivazione della chiusura, e che possiamo riscontrare in altri paesi. Infatti, udite udite, l’Italia non è il primo paese in cui Domino’s non ha saputo penetrare il mercato.

Prima di approfondire la faccenda, partiamo prima dai fatti: Domino’s Italia non ha ufficialmente ancora chiuso. O meglio, in pratica lo ha fatto: le serrande sono abbassate, i dipendenti sono a spasso, e anche se il sito risulta ancora attivo non si possono ordinare pizze. Però, ripetiamo, non ci sono dichiarazioni ufficiali dall’azienda (che non ha risposto alle domande dei giornalisti), né aggiornamenti dal tribunale che ha seguito l’istanza di fallimento. Per quello che ne sappiamo, ci potrebbe essere qualcuno che stia lavorando dietro le quinte per recuperare fondi di investimento e risanare i 10,6 milioni di euro debiti che l’azienda aveva accumulato ad aprile scorso. E in effetti, lo stesso Food Service, nelle ultime ore, è riuscito a recuperare una testimonianza anonima di una ex dipendente che ha dichiarato come l’azienda starebbe attuando un piano di riassorbimento di una quindicina di dipendenti tramite un imprenditore di Parma.

Ma cosa li ha portati a questo punto? Nell’istanza ePizza lamentava i danni economici causati dalla pandemia e contemporaneamente la concorrenza di servizi di food delivery come Deliveroo, Glovo e JustEat, che proprio durante quel periodo hanno subito un’impennata record. Laddove, per l’appunto, l’azienda si era dimostrata forte importando in Italia nel 2013 il modello vincente che l’aveva vista dominare negli altri mercati: consegna a domicilio con la promessa dei 30 minuti, ordini tramite app e altre amenità varie che nel nostro paese erano a dir poco sconosciute fino al lockdown.

Insomma, Domino’s battuta proprio nel suo stesso campo di gioco (anche, sempre secondo la suddetta testimonianza, la pandemia non c’entrerebbe niente, le vendite erano regolari e si sarebbe trattato di un caso di mala amministrazione). Ma quelli che si sono riempiti la bocca dichiarando che un’azienda che cerca di vendere in Italia pizza con l’ananas o con i pepperoni non poteva che fallire – e sarebbe sempre prima da vedere, tabulati alla mano, quante di queste ne hanno effettivamente vendute nei 7 anni in cui le hanno regolarmente tenute a menù – resterebbero sorpresi nel sapere che proprio nel suo mercato europeo più forte, il Regno Unito, Domino’s stava vivendo esattamente la stessa crisi.

Una crisi che è arrivata molto prima che da noi, ma che nessuno si sarebbe mai potuto aspettare. Tanto è vero che nel 2014 The Guardian annunciava il successo della catena nella terra della regina (la cui storia è iniziata nel 1985 con un punto vendita nella cittadina di Luton) dichiarando che il marchio dominava il 26% del mercato pizza nel paese, con una crescita esponenziale. Ma, appena cinque anni dopo, sempre sul Guardian un articolo annunciava la crisi di Domino’s a causa proprio della crescita di servizi come JustEat e Deliveroo (quest’ultima fondata a Londra nel 2013).

A far loro da triste compagnia, anche altre catene che avevano la pizza tra i piatti forti del menù come Prezzo, Strada e Pizza Express. Ma quell’anno viene ancora ricordato per quella che fu in generale una crisi dell’industria della ristorazione in tutto il paese, che ha visto nomi anche importanti come Jamie Oliver chiudere numerosi ristoranti. Parliamo dell’ottobre 2019: della pandemia ancora non si avevano avvisaglie, ma sarebbe arrivata di lì a poco a dare la mazzata finale a molti di loro (siamo ancora in lutto per Carluccio’s).

I 63 franchisee che all’epoca gestivano il marchio nel paese si sono trovati a far fronte a una Brexit incombente, con spese di manodopera e costi di produzione in aumento a fronte di margini di guadagno molto bassi. Non solo: i titolari del franchise lamentavano che l‘azienda non stava investendo sull’infrastruttura tecnologica che l’aveva resa fino a quel momento competitiva, facendole ora perdere terreno di fronte alle compagnie di food delivery. Risultato: si creò una disputa nei confronti del master franchise inglese, Domino’s Pizza Group, per ottenere una fetta di profitti maggiori, pena la minaccia di non aprire altri punti di vendita. Due di questi franchisee possedevano da soli 200 dei 1.109 punti vendita di allora, potendo quindi contare su un enorme potere d’influenza da esercitare sull’esecutivo. Moltissimi di loro non parteciparono alle campagne di marketing che il brand stava lanciando in UK quell’anno.

E difatti proprio nel 2019 Domino’s Pizza Group dichiarò di volersi ritirare da altri quattro mercati europei per concentrare la propria attenzione su quello britannico. I paesi in questione erano Islanda, Svezia, Norvegia e Svizzera, per un totale di 115 ristoranti gestiti direttamente dalla divisione inglese. Nel semestre precedente l’azienda aveva infatti dichiarato in quei paesi perdite per 6.4 milioni di pound (7.3 milioni di euro al cambio dell’epoca), ma in realtà non stava generando profitti almeno dal 2017.

Significativo il caso dell’Islanda, dove Domino’s dominava la percentuale di mercato del fast food con il 37,6% dei punti vendita, riuscendo dove altre catene americane come McDonald’s, Dunkin’ Donuts e Burger King avevano fallito. Tale successo l’aveva portata a espandersi nei vicini paesi nordici Danimarca, Svezia e Norvegia. Ma le succursali danesi hanno dichiarato fallimento all’inizio del 2019, mentre le altre location stavano già registrando vendite bassissime negli anni precedenti.

Le cause del fallimento nei paesi nordici vanno ricercate nel contesto culturale. All’inizio degli anni 2000 le abitudini alimentari di quelle popolazioni hanno subito un cambiamento, passando dai cibi superprocessati a un’alimentazione di produzione locale e biologica, spesso di natura vegetale. Sono gli anni della New Nordic Cuisine, promossa da chef come Rene Redzepi e Claus Meyer, che creerà una cultura culinaria nazionale molto radicata. Altro che noi italiani!

A questo si aggiunge l’abitudine tutta nordica di consumare i pasti in famiglia. Ma, anche nell’optare per un pranzo veloce in un fast food, la scelta tende spesso a ricadere sulle catene locali, viste come più etiche rispetto ai colossi americani dediti solo al profitto, e per niente interessati a una cultura etica d’impresa. Infine il modello di pronta consegna tanto popolare in altri paesi semplicemente non aveva motivo di esistere tra popolazioni che o preferiscono mangiare al ristorante, o che sono sparse su territori molto ampi, rendendo le distanze troppo lunghe da coprire.

Il colpo di grazia, in nord Europa, lo hanno dato un sistema di tassazione elevato e dei costi di manodopera molto alti (supportati da forti sindacati). Per una catena che fa del punto forte del suo prodotto i prezzi bassi si intuisce benissimo che tutti questi fattori messi assieme non potevano che creare la ricetta per un disastro finanziario. Questo, in un periodo in cui i paesi nordici hanno visto un rallentamento della loro crescita economica. Specialmente in Islanda, che negli ultimi anni ha subito un calo dei flussi turistici, passando così dall’essere per Domino’s un mercato di successo a uno fallimentare.

Nel marzo 2021 Domino’s Pizza Group riesce finalmente a vendere le sue quote in Islanda e Svezia a degli investitori locali. Seguirà successivamente la Svizzera nello stesso anno. I negozi danesi furono invece rilevanti nel 2019 dal master franchise australiano Domino’s Pizza Enterprise. Che furono tra l’altro, anni prima, gli stessi responsabili dell’acquisizione dei negozi della catena in Germania, anch’essi appartenuti alla divisione inglese e abbandonati per mancanza di profitti (a quanto pare anche lì a causa di una maggiore affezione dei tedeschi verso i brand locali).

Insomma, come si può vedere il caso di Domino’s Italia non racconta nulla di nuovo, e paradossalmente ha molto meno a che vedere con la nostra “cultura della pizza” rispetto ad altri paesi. Anzi, le rivelazioni delle ultime ore lasciano invece intendere che proprio nel nostro paese le perdite non avessero niente a che vedere con il numero delle vendite. E che, a dispetto dei titoloni dei giornali, potrebbero anche da noi arrivare dei salvatori che terranno in piedi il marchio nella patria della pizza. Staremo a vedere.

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