Pizzaiole italiane all’estero: come cambia la percezione delle donne nel mondo pizza?

Donne nel mondo pizza: forse dovremmo smettere di parlarne?

Spiego meglio quella che può sembrare una provocazione: un articolo come questo, pubblicato nella Giornata Internazionale della Donna, potrebbe sembrare voler dire “Ehi, guardate, ci sono anche loro. Ricordiamocene oggi che è l’8 marzo”.
Non è così. O per lo meno, non più, nelle intenzioni di chi scrive. Personalmente, la mia visione sul ruolo della donna come pizzaiola è cambiata rispetto a un anno fa. Prima mi chiedevo perché non se ne vedessero così tante, dal momento che il mestiere non sembra che tenda a discriminarle. Oggi non me lo chiedo più: ci sono, e non sono poche.

E non è che siano spuntate nell’ultimo anno, chiaramente. La pandemia ci ha concesso molto più tempo per dedicarci ai nostri interessi, e fare ricerche più approfondite. E probabilmente le stesse pizzaiole, lontane dai loro forni nei periodi di lockdown totale, avranno trovato molto più tempo di promuovere il loro lavoro tramite i profili social.

Certo, se paragonato ai colleghi uomini, il numero è ancora molto basso. Ma non lo è in senso assoluto. Già in anni passati sono stati dedicati numerosi articoli alle donne nel mondo pizza: vi segnalo, tra i tanti, questo di Luciana Squadrilli, e quest’altro scritto da Nunzia Clemente proprio su Garage Pizza.

Ma c’è da dire che non tutti i professionisti, che si tratti di donne o uomini, amino esibirsi al di fuori delle loro cucine ed esporsi sui social. Là fuori ci sono tantissime pizzaiole di cui non sospettiamo l’esistenza, che mantengono un profilo basso e la testa sugli impasti. Da questo punto di vista, un ottimo lavoro di scouting lo sta facendo il team della tramissione Pizza Girls.

C’è anche da aggiungere altro: quel misto di sorpresa e di curiosità che prende alcuni di noi quando vediamo una donna dietro al bancone è probabilmente legato di più al nostro retaggio culturale da italiani. Ma si avverte di meno – o anche per niente – in altre nazioni del mondo occidentale e non: pensate per esempio a quanto sia comune negli Stati Uniti o in Giappone vedere donne ai forni.

E qui mi ricollego alla domanda iniziale: forse dovremmo smettere di parlare di donne pizzaiole come se fossero degli unicorni ed evidenziare la loro presenza in relazione al genere? Assolutamente sì, e credo che lo stiamo già facendo. Anzi, sono sicuro che nel giro di pochi anni il numero di professioniste sarà talmente elevato da non doverci porre proprio più la questione.
Però non spetta a me dirlo, dovrei lasciare la parola alle dirette interessate. Già l’anno scorso ebbi l’occasione di chiacchierare con alcune pizzaiole italiane che mi hanno fornito il loro punto di vista sul ruolo della donna nel mondo pizza. Quest’anno, invece, ho rivolto la parola ad alcune di loro, sempre italiane, che lavorano o hanno avuto esperienze all’estero, per fare un parallelismo con la cultura di altri paesi.

Sappiate che sono molte di più delle quattro elencate in questo articolo, e che purtroppo alcune di quelle che ho contattato non hanno potuto concedermi il loro tempo per motivi di impegni personali. Ci sarà sicuramente occasione di parlare con loro in altre occasioni. Occasioni che prescindano dal discorso di genere.

Natalia Terracciano

Natalia è una pizzaiola che potremmo definite in erba, data la sua giovanissima età (23 anni). Ma ha già due esperienze formative all’estero. Ha cominciato il suo percorso nella nota catena londinese Pizza Pilgrims, dove ha appreso le basi del mestiere, supportata dal fratello e dal cugino. E proprio con loro, ha avuto l’occasione di un bel salto nella professione: un contratto per l’apertura di una pizzeria in Kuwait. Lì, Natalia ha dedicato tutta se stessa allo studio degli impasti per offrire un prodotto che fosse all’altezza degli standard napoletani. “Nonostante qualche occhiata di sorpresa da parte dei clienti, non ho avuto problematiche di nessun tipo: considera che il Kuwait è il paese più liberale del Golfo Persico, e il mio titolare mi supportava enormemente nel lavoro. La diffidenza l’ho percepita più dai colleghi filippini o indiani, che non sono abituati a vedere una donna coprire determinati ruoli. Ma proprio per questo anche loro mi trattavano con un rispetto quasi timoroso”.

“Io sono comunque appena all’inizio del mio percorso, non mi sento per niente arrivata come pizzaiola”, mi dice: rientrata a Napoli a causa della pandemia, è infatti andata a lavorare per la seconda apertura de Il Colmo del Pizzaiolo, di Federico Guardascione. “Cerco di prendere esempio dal lavoro di quanti più pizzaioli possa seguire, uomini e donne, per poter crescere nel mestiere”.

Giorgia Caporuscio

Giorgia Caporuscio è un nome molto noto del settore, soprattutto negli Stati Uniti: dirige infatti la pizzeria Don Antonio a New York. Anche lei ha cominciato giovanissima, appena diciannovenne, per farsi strada nel giro di 11 anni. “All’inizio erano davvero tutti diffidenti, e ho dovuto lavorare il triplo per affermarmi: perché ero giovane, ero donna ed ero la figlia del titolare (Roberto Caporuscio, NdR). Alle manifestazioni internazionali come l’Expo di Las Vegas non potevano credere che fossi davvero io a preparare gli impasti”.

Giorgia si è dedicata per lungo tempo anche alla formazione di altre figure professionali. Fino a quando ha deciso di dedicarsi allo studio del management aziendale, per capire come prendere in mano le redini della pizzeria. Il che, però, non l’ha portata lontano dal bancone: oggi impasta, sforna e prende gli ordini, gestendo allo stesso tempo il locale. E nel frattempo, non ha mancato di fare sentire il supporto alle sue colleghe: “Qui in Nord America ci sono tantissime donne nel mondo della pizza e della panificazione, e molte di loro sono titolari della propria attività. Ho deciso di creare un gruppo dedicato a loro, chiamato Women in Pizza”.

Francesca Lerro

Anche Francesca Lerro è giovanissima, 27 anni, e si è trovata nel mondo pizza per caso, per poi innamorarsene. Co-titolare, assieme al compagno Alessandro, della pizzeria Nu poc’ e’ Napule a Düsseldorf, viene in realtà da una famiglia di pasticcieri. Il cambio effettuato per intraprendere l’attività, a gestione familiare, l’ha fatta innamorare del mestiere e del prodotto. “Ci è voluto del tempo per abituare il gusto dei tedeschi allo standard della pizza napoletana. Ma oggi soffriamo, perché sono proprio loro adesso a farci i complimenti sulle pizze che ricevono a casa, e a noi manca non poterli avere in pizzeria: sappiamo che la pizza mangiata fresca al tavolo è tutt’altra cosa”. E per quanto riguarda le reazioni dei clienti nel vederla al bancone? “Gli italiani di queste parti all’inizio mi facevano qualche battutina, ma sia loro che i tedeschi hanno sempre dimostrato apprezzamento nel vedermi al lavoro”.

Raissa Tomaselli

Raissa ha cominciato a mettere le mani nell’impasto a 15 anni, nella sua Bacoli. Poi a un certo punto è partita per l’estero, e la sua crescita professionale è stata costante. Negli ultimi anni si è mossa tra Londra e Parigi, lavorando prima per la piccola catena Bianco43, per poi passare al Big Mamma Group. “Sono stata messa a capo di una brigata di dodici uomini alla Pizzeria Popolare (la seconda pizzeria più grande del gruppo, NdR), ed è stata un’esperienza bellissima. Ti dirò, io nella mia vita non ho mai conosciuto nessuno che mi facesse pesare il fatto che fossi donna in questo ruolo. Anzi, come head pizza chef potrei dirti che  l’ho percepito come un valore aggiunto: noi donne tendiamo ad avere modi più calmi nel comunicare, e questa tranquillità che riusciamo a trasmettere al nostro team fa bene al lavoro di squadra“.

Nel momento in cui pubblichiamo, Raissa sta per cominciare la sua avventura da Pizza Pilgrims a Londra. “Avrò giusto un breve periodo per comprendere i valori e il modo di lavorare di quest’azienda, ma poi riprenderò nel mio ruolo di supervisore. In futuro mi vedo sempre lavorare in un contesto aziendale che mi dia stabilità: è favorevole alla mia crescita professionale. Siamo tutti uguali, abbiamo tutti le stesse capacità a prescindere da sesso, razza o credo: quello che conta per tutti è l’impegno e la passione costante che mettiamo nel lavoro“.

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