Cosa significa davvero il riconoscimento UNESCO per l’arte del pizzaiuolo napoletano
dalla mecca Napoli fino a un patrimonio di tutto il mondo
Rubrica di Giuseppe A. D'Angelo — 3 anni fa
7 dicembre 2017: una data che gli appassionati di pizza napoletana difficilmente dimenticheranno. Quel giorno, a Jeju Island, un’isola della Corea del Sud, la commissione UNESCO si riunì per annunciare i nuovi iscritti alla lista dei Patrimoni Orali e Immateriali dell’Umanità. E quell’anno, tra le varie candidature, venne accettata quella dell’arte del pizzaiuolo napoletano.
“Fuie na festa e pe for’e balcone, nu sacco e bandiere pe tutt’a città”… È proprio il caso di citare uno dei versi iniziali della canzone corale Napule. L’esplosione di gioia fu immensa da parte di tutto il mondo della pizza napoletana. Le bandiere forse non sventolarono fuori ai balconi, ma pizzaioli di tutte le nazionalità che onorano quest’arte festeggiarono con la pubblicazione di un’immagine profilo Facebook ad hoc che dichiarava orgogliosamente: “la mia arte è patrimonio UNESCO”.
Una sorta di riscatto sociale per una categoria che oggi nell’ambiente siamo arrivati a venerare quasi come fosse una divinità. Ma che fino a non molto tempo fa era quasi considerata al livello più basso delle classi sociali. Un mestiere che veniva vissuto come fosse un’umiliazione da parte di chi lo esercitava e lo dichiarava quasi con vergogna… O almeno, questa è la narrazione che viene portata avanti oggi.
Che io mi ricordi, nonostante non sia poi così vecchio, almeno a Napoli e dintorni il pizzaiolo non ha mai vissuto questo stigma sociale che oggi si tende ad enfatizzare come un retaggio del passato. Anzi, in una città che vede una concentrazione così elevata di pizzerie, era quasi impossibile non avere un amico pizzaiolo, o un parente, o il parente di un amico. E questo spesso determinava persino la scelta della pizzata serale. “Andiamo là, che il pizzaiolo lo conosco”, si diceva spesso, con aria da garante. E vogliamo parlare del ruolo di importanza che gli si attribuiva nel successo di un locale? “Quando cambia il pizzaiolo cambia la pizza”, “eh, si vede che quel pizzaiolo se n’è andato, la pizza non è più come prima”.
Sono tutte espressioni con le quali il mondo pizza odierno, abituato a glorificare i fenomeni mediatici, fa regolarmente i conti a livello nazionale. Ma, almeno a Napoli, ha sempre rappresentato la nostra quotidianità. Una quotidianità che, in quanto tale, non ergeva i pizzaioli su nessun piedistallo. Ma nemmeno li affossava nella categoria dei paria della società, come la retorica di oggi vorrebbe farci credere.
E però è proprio perché questa era una peculiarità tutta locale, che si sentiva il bisogno di metterci l’accento sopra. D’altronde, un pizzaiolo napoletano che nei decenni scorsi migrasse al nord o all’estero in cerca di fortuna non è che riscontrasse un apprezzamento particolare nei confronti della sua arte. Era un mestierante, uno come tanti, e spesso doveva anche piegare la qualità del suo prodotto ai voleri di un pubblico non in grado di accoglierlo. L’attenzione mediatica sulla pizza napoletana fuori Napoli è relativamente recente, ma la sua diffusione risale a molto tempo prima. E, per chi ci ha lavorato, è stato un processo di riconoscimento molto lento, frutto di un lavoro di comunicazione costante.
Lo stesso tipo di comunicazione massiccia che si è avuta per la candidatura UNESCO. Quando l’ex ministro delle politiche agricole Alfonso Pecoraro Scanio lanciò l’idea della candidatura nel 2014, occorse l’unione di diverse associazioni per portare avanti la campagna. Tra cui, in primis, le storicamente rivali AVPN (Associazione Verace Pizza Napoletana) e APN (Associazione Pizzaiolo Napoletani), che hanno unito le forze per uno scopo più grande. La campagna, portata avanti nel corso degli anni a livello globale, fu in grado di raccogliere 2 milioni di firme: fu la più grande mai effettuata per una candidatura UNESCO.
E come ci si poteva aspettare altrimenti? Si andavano a toccare le corde di un aspetto culturale del popolo napoletano che è sentito profondamente identitario, sia da parte di chi il mestiere lo pratica, sia di chi la pizza la mangia. Ecco, soffermiamoci un attimo su questo punto: l’aspetto culturale. Qua occorre ricordarlo, perché è di questo che stiamo parlando. Purtroppo fin dal principio si è rapidamente diffusa la credenza errata che fosse la pizza napoletana a godere del riconoscimento UNESCO. Cioè il prodotto, e non l’arte che la genera. Complice anche una stampa disinformata, o volutamente furba nel generare il titolo clickbait. La differenza è sostanziale. Soprattutto perché il titolo è quello di Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità. “Ma come immateriale”, si sono chiesti in molti, “io la pizza la tocco, la annuso, la mangio”…
Va sottolineato come appunto il titolo inglese sia “Intangible cultural heritage”, che personalmente apprezzo di più nella sua ricchezza di significato. “Intangibile”, che non puoi toccare. “Culturale”, perché parliamo per l’appunto di una cultura, che viene tramandata in mille modi (e non solo in forma orale come la traduzione italiana darebbe a intendere). Sì, quella del pizzaiolo napoletano è un’arte. Un’arte fatta di tecniche, conoscenze, ma anche gestualità tipiche, linguaggi arcaici, attitudini… non si può ridurre solo all’aspetto della mera esecuzione.
Così come non si può ridurre il tutto al pizzaiolo napoletano. In realtà il riconoscimento UNESCO tiene conto di quanto questo aspetto culturale permei l’intera città di Napoli, e abbia un notevole impatto sul tessuto sociale. Partiamo dal riscatto di cui parlavamo all’inizio: il fatto che questo mestiere, praticato spesso sin dalla più giovane età, tolga dalla strada molti ragazzi dei bassi ceti sociali che potrebbero non avere la possibilità di un’educazione di alto livello, spesso con alta probabilità di finire tra le mani della malavita organizzata. E che per molti rimane un mestiere a vita, anche profittevole se si è in grado di tramutarlo in una buona attività imprenditoriale.
Ma parliamo anche della presenza scenica del pizzaiolo, e del suo spazio di lavoro. La pizza napoletana è un piatto che per concezione prevede di essere realizzato sotto gli occhi del pubblico. Lo staglio delle palline, la stesa, l’ammaccatura, la farcitura, l’infornatura… sono tutte fasi che avvengono in un ambiente esposto ai commensali, quello del forno e del bancone protetto da un vetro trasparente. Da questo punto di vista, rappresenta la quintessenza dello show cooking. Ed è una caratteristica sulla quale si è posto molto l’accento negli ultimi anni, dal momento che in alcune pizzerie moderne si è deciso persino di mettere a vista il laboratorio dove si producono gli impasti (alcuni con finalità di marketing, come l’utilizzo evidente della macina a pietra).
E che dire dell’impatto che questo ambiente ha sulla società? In quella strada che è un museo a cielo aperto della pizza napoletana, via dei Tribunali a Napoli, si è costantemente avvolti dall’odore di pizza calda appena sfornata. I forni, i pizzaioli e i fornai sono visibili dall’esterno ancora prima di varcare la soglia della pizzeria. “Andiamo a farci una pizza” non è un’espressione per indicare l’esigenza di riempirsi lo stomaco, ma è una frase che richiama alla convivialità, all’amicizia, all’incontro. La pizzeria napoletana può essere luogo di pausa, di riflessioni filosofiche, di discussioni di lavoro. E anche essere luogo di incanto per bambini e adulti, il cui sguardo viene rapito dalle movenze continue di quegli artigiani in costante lavoro.
E non si faccia l’errore di pensare che questa sia una cultura circoscritta al territorio napoletano. Certo, Napoli resterà sempre la mecca per i veri appassionati di pizza di tutto il mondo che prima o poi dovranno compiere quel pellegrinaggio per vivere l’esperienza più autentica. Ma quest’arte, questa cultura, non viene tramandata solo verticalmente, ovvero di genitori in figli, nelle famiglie napoletane. Ma anche orizzontalmente. È da decenni che assistiamo al fenomeno di professionisti e appassionati che vengono da paesi stranieri a Napoli per imparare l’arte dai maestri e respirarne la cultura. Chi si sia mai interessato al fenomeno e ha compiuto un viaggio in Giappone avrà sicuramente notato come da quelle parti la pizza napoletana viene riprodotta con ossessiva maniacalità, arrivando ad utilizzare anche gli strumenti della tradizione (la pala di legno, oggi sempre più rara da vedere nelle pizzerie del centro storico), e riproducendo un ambiente il più simile possibile a quello vissuto nella propria esperienza da discepoli (e, come ben sapete, noi visitiamo spesso il Giappone, al punto da aver realizzato una selezione delle migliori pizzerie presenti nel Sol Levante. NdTanzen).
Va sottolineato che, per l’appunto, l’arte è un Patrimonio dell’Umanità. Può essere insegnata, appresa, tramandata. Ma anche rielaborata, innovata, riconcettualizzata, senza per questo perdere le sue connotazioni principali e tenendo viva la memoria storica (come le prime testimonianze scritte della pizza del 1800). Una delle critiche che sento muovere spesso ai pizzaioli della tradizione, e che mi trovano d’accordo, è quella di appoggiarsi al riconoscimento UNESCO per giustificare il volersi fossilizzare su un concetto di pizza che a loro dire deve rimanere immutato e intoccabile. Come fosse una reliquia da museo.
Ma, per quanto questo atteggiamento protettivo non sia di per sé da condannare, non è all’UNESCO che bisogna guardare. Perché l’organizzazione non tutela, ma riconosce e valorizza. Non spetta alla commissione preservare le arti o i siti elencati nelle loro liste, ma alle istituzioni o chi le rappresenta. Tanto è vero che non mancano i casi di siti monumentali che si sono visti revocare il riconoscimento perché non sono stati tutelati da chi di dovere, e per questo hanno perso proprio quelle caratteristiche per cui erano entrati nelle liste. La stessa cosa può succedere benissimo con l’arte della pizza napoletana, per i motivi più svariati. Lo scorso primo aprile abbiamo fatto un esercizio d’immaginazione per il classico scherzo (trovate l’articolo a questo indirizzo), basandoci però su criteri più che validi: tanto è vero che in molti ci sono cascati pensando che l’UNESCO stesse seriamente valutando di ritirare il riconoscimento.
E, a dispetto del titolo, non conta nemmeno che si sia napoletani per poter essere portatori e difensori di quest’arte. Non la puoi rinchiudere all’interno delle mura della città di Napoli. L’arte, per definizione, è di tutti. Non conta da dove si venga o dove la si pratichi, ma quello che rappresenta nella sua essenza, e come si ha intenzione di diffonderla e comunicarla. È una fonte di ricchezza inesauribile di conoscenze, valori, emozioni, percezioni assimilabili ed esperibili da chiunque. È, per l’appunto, un patrimonio. Un patrimonio dell’umanità.