E se le pizzerie facessero orario continuato?

In attesa che il coprifuoco venga revocato i ristoranti gestiscono la sala al meglio. Ma forse in alcuni casi la soluzione può essere a monte.

Rubrica di Giuseppe A. D'Angelo — 3 anni fa

Durante i primi tempi della mia permanenza a Londra facevo fatica da napoletano a tollerare che molti ristoranti chiudessero presto la sera (alcuni anche alle 22), costringendomi a organizzarmi prima per uscire e cenare in un orario che non mi era proprio consono. Col passare del tempo, però, ho avuto modo di apprezzare il rovescio della medaglia di una situazione del genere: se è vero che molti locali chiudevano troppo presto, è anche vero che molti di questi durante la settimana erano aperti tutto il giorno, continuativamente, da pranzo a cena.

L’orario continuato è una pratica che mi ha salvato in più di un’occasione quando mi sono trovato costretto a mangiare fuori in orari improbabili. Intendiamoci: terrone nasco e terrone resto, per cui non concepisco che ci si possa sedere a tavola prima delle nove di sera. Ma ho pensato più volte che non sarebbe stato male avere anche in molte località del nostro paese l’occasione, volendo, di pranzare anche alle quattro del pomeriggio.

Chiaro, l’orario continuato non è applicabile ovunque. Si tratta di una scelta vincente in località ad alto flusso di movimento. In soldoni: città turistiche, o aree metropolitane popolate di negozi e uffici.
E la domanda successiva che dovremmo farci è: sicuramente non ci mancano né le une né le altre, ma allora perché non lo adottiamo?

In effetti non è che manchino gli esempi nel nostro paese: basta farsi un giro intorno alla Torre di Pisa, o in Piazza della Signoria a Firenze, e troviamo diversi ristoranti che lavorano instancabilmente anche per oltre 12 ore di fila. Ma si tratta appunto di casi estremi, punti nevralgici del turismo italiano, in un’Italia che in realtà offre molto di più delle solite tre o quattro attrazioni da cartolina.
In più c’è un altro fattore da considerare: se affrontiamo il discorso pizzeria la cosa può diventare problematica.

Se infatti un piatto di pasta o una tagliata di carne non necessitano di tanta preparazione a monte, perché basta tirare i prodotti fuori dalle dispense, per la pizza non è proprio la stessa cosa. Il piatto più veloce del mondo dal momento dell’ordine al suo arrivo a tavola richiede in realtà una pianificazione molto meticolosa da parte delle pizzerie.
Il più grande punto di forza della pizza è anche il suo limite principale. Si produce da zero, (solitamente) nello stesso luogo in cui viene venduta, dando al cliente la garanzia di un prodotto sempre fresco. Ma questo comporta una grossa attenzione all’andamento del flusso della clientela: detta in parole povere, il pizzaiolo nel realizzare l’impasto deve avere un’idea più o meno precisa di quante persone dovrà sfamare per evitare sprechi nella preparazione.

La cosa è gestibile se si contingentano gli accessi nei classici orari di pranzo e cena. Dopo aver gestito un locale per un breve periodo di tempo si avrà già ben chiaro il numero di clienti che si servono di solito in quegli orari. Più difficile se invece si dovessero calcolare anche dei clienti aggiuntivi che in maniera totalmente casuale possano presentarsi durante la giornata in orari meno convenzionali.

Ma questo discorso ha davvero senso in luoghi ad altro traffico come ad esempio lo stesso centro di Napoli? In una città che prima della pandemia ha visto un aumento esponenziale di turisti nell’ultimo decennio, le numerose pizzerie del centro avrebbero sicuramente beneficiato di un’apertura continua per venire incontro alle loro esigenze.
Che senso ha tenere incollata una persona due ore in coda fuori da Sorbillo, quando nello stesso lasso di tempo quella stessa persona potrebbe impiegarlo per visitare uno dei tanti musei della zona per poi tornare a mangiare in un’orario meno affollato? Tra l’altro, in questo modo, stimolando anche una circolazione più distribuita delle sue finanze, con un riscontro equo per l’economia di tutto il comparto.

D’altronde molte pizzerie fanno già un orario che è quasi continuato: chiudono alle 3.30 per riaprire alle 7. E si tratta spesso di una pausa fittizia, dal momento che quel lasso di tempo i pizzaioli lo dedicano all’impasto, che sia lo staglio per la sera, o la preparazione per il giorno dopo. Tanto vale tenere aperta la sala, no?

E qui casca un po’ l’asino. Perché tenere aperto il ristorante per quelle poche ore significa tenere anche operativo il personale di sala che nel frattempo se n’era andato a casa. Sto forse suggerendo che un cameriere debba lavorare ininterrottamente per dodici ore? Ma tutt’altro, anzi, esattamente il contrario!
Perché costringere un cristiano a un lavoro con degli orari che non gli permettono di potersi organizzare la giornata in maniera decente? I camerieri se ne vanno dal ristorante il primo pomeriggio per ritornare al lavoro solo poche ore dopo, spezzando la giornata in modo controproducente. Non è un caso che si tratti per lo più di studenti, che sfruttano quella pausa per mettersi sui libri senza nemmeno tornare a casa. Ma è giusto che sia così? E poi, sono davvero tutti giovani quelli che vi servono ai tavoli?

Non sarebbe meglio se una pizzeria che sforna un numero notevole di pizze al giorno investisse le sue entrate sull’assunzione di maggior personale – tra camerieri e pizzaioli – che possa coprire due turni continui? Questo investimento verrebbe tranquillamente ripagato dal numero di clienti che comincerebbero a sedersi anche in altri orari della giornata aumentando il fatturato del locale, oltre che la sua reputazione nei confronti della concorrenza.
Maggiori clienti, maggiori guadagni, maggiori assunzioni: un ricircolo costante dell’economia del territorio di cui beneficiano tutti. Imprenditori, clienti e lavoratori.

Non solo, si potrebbe ragionare anche al contrario. Fino adesso dobbiamo per forza considerare che un discorso del genere si possa adottare in zone con un turismo altamente concentrato. Ma se fosse proprio il locale aperto tutto il giorno a generare il turismo?
Pensate all’esempio di Pepe in Grani: Franco Pepe è riuscito con la sua proposta a mettere il paesino di Caiazzo sulle rotte dei turisti, generando anche un indotto collaterale con l’apertura dei bed & breakfast e dei ristoranti attorno al vicoletto che porta alla sua struttura. La domanda però rimane: perché costringere le persone a ore di fila e non permettere loro di poter prenotare in qualsiasi momento della giornata, in modo da accomodarli tutti senza attese?

Il modello Caiazzo ha sicuramente avuto un impatto sul territorio, ma può funzionare ancora meglio: invece di attirare solo persone che soggiornano post-cena per poi molto probabilmente fare i bagagli e andarsene il mattino dopo, potrebbe invece stimolare molti più turisti a visitare le aree circostanti durante il giorno, se questi ultimi sono tranquilli che possono in qualsiasi momento fermarsi per una pizza.
In un paese come l’Italia, fucina di talenti gastronomici e dove ogni borgo ha un immenso potenziale turistico, questo modello si potrebbe replicare con regolarità e intelligenza. Ancora, va sottolineato l’enorme beneficio che un’attività del genere avrebbe a livello occupazionale e sull’economia locale.

Naturalmente questi discorsi si applicano in un mondo ideale o, per meglio dire, normale. Un mondo in cui i ristoratori sono disposti a investire nella formazione del proprio personale con contratti regolari e dalla giusta retribuzione, e una visione imprenditoriale di crescita nel lungo periodo. Non è certo un ragionamento che funzioni in quel mondo ben descritto da Anna Prandoni su L’Inkiesta, fatto di compensi a nero, turni massacranti e sfruttamento nel nome del sacrificio collettivo.
Fino a che non si abbandonerà la mentalità del tutto e subito, saranno ben poche le imprese di ristorazione che avranno le spalle così forti da potersi permettere di restare aperte tutto il giorno. E noi continueremo a scambiare una fila per popolarità, dimenticandoci che potrebbe essere invece disorganizzazione.

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