La pizza tra tradizione e innovazione: spesso è solo fuffa
Due concetti opposti ma connessi, agli antipodi ma strettamente consequenziali
Rubrica di Simona Della Valle — 3 anni fa
La pizza è senza dubbio uno tra gli argomenti più discussi negli ultimi anni. Un fenomeno mediatico, sociale e antropologico oserei dire. Argomento dalle mille sfaccettature che lascia adito a molteplici disquisizioni: si dibatte sulle origini, sulle ricette autentiche, sui metodi diretti o l’utilizzo dei prefermenti, sulle cotture, sull’idratazione e così all’infinito. Eppure, se c’è uno slogan che oggi troppo spesso gli addetti del settore citano e che li accomuna – seppur poi con tendenze diverse – ovvero l’atavica dicotomia tra tradizione e innovazione. Due concetti opposti ma connessi, agli antipodi ma strettamente consequenziali.
Eh sì, perché la domanda “Meglio innovazione o cieca fedeltà alla tradizione?” quando si parla di pizza è un po’ come porsi il quesito dell’uovo e della gallina. Sentendo sempre più spesso pizzaioli parlare del proprio prodotto con frasi del tipo “pizza della tradizione con uno sguardo all’innovazione” oppure “pizza innovativa ma saldamente ancorata alla tradizione” o ancora, per i più pigri, semplicemente “pizza a metà strada tra innovazione e tradizione”, mi sono fermata un attimo e mi sono chiesta: ma, innanzitutto, cosa significano innovazione e tradizione?
Dopo tante riflessioni, indagini e notti insonni, sono giunta a una conclusione… un bel niente! Ora vi spiego come la penso.
Tradizione, dal latino traditio, “consegna, trasmissione” ma, e non mi sembra poco, anche “tradimento”. Il che, scusate, ma è davvero ironico perché a ben pensarci, volendo prendere in considerazione anche questo significato, tutta la diatriba di cui sopra potrebbe già dirsi conclusa. Come a dire che la tanto osannata tradizione porta in grembo i segni di una purezza infranta.
Ma accantoniamo questo significato premonitore e ritorniamo su quello classico, quello che come il riso abbonda sulla bocca degli stolti. Dicevamo quindi di una trasmissione nel tempo, da una generazione alle successive, di memorie, notizie, testimonianze. E qui tutto semplice, fin quando non ci si mette la teologia per la quale il termine assume il significato di “trasmissione delle verità rivelate da Cristo”. Ed ecco che qui casca l’asino.
In realtà la tradizione come atto di tramandare indica un semplice passaggio di informazioni senza implicazioni di sorta, senza auree di immacolata santità delle suddette, lasciando fuori giudizi sulla loro veridicità o falsità, sul loro essere giuste o sbagliate ma riferendosi a esse come un bagaglio di notizie riguardo qualcosa o qualcuno di un dato passato, e delle quali si può essere o meno interessati a venirne a conoscenza e/o a metterle in pratica.
Gli antichi romani erano soliti immolare vittime sacrificali agli dei… questo – che Giove ce ne scampi! – non implica che sia un’usanza da preservare a tutti i costi, eppure è una tradizione. Ma, se seguendo l’aspetto teologico doniamo a queste memorie un’aura di santità, di verità assoluta, ecco che cadiamo nell’errore di considerare la tradizione come un qualcosa da preservare a mo’ di reliquia.
Passiamo poi ad analizzare l’altro termine di questa dicotomia: innovazione ovvero l’atto, effetto dell’innovare ovvero introdurre concetti, metodi, strumenti nuovi. Se ci atteniamo all’etimologia di questo vocabolo, non c’è riferimento a un vecchio sul quale basarsi come punto di riferimento per costruire un nuovo che porti in sé i germi di quel vecchio da cui dovrebbe trarre origine. Intendendola quindi in maniera errata come si fa oggi, si priva l’atto dell’innovare di quella sua fluidità, di quel suo essere in costante movimento verso la conoscenza (questa sconosciuta).
Questa lotta continua tra scuole di pensiero è… fuffa!
Quello a cui tutti forse si riferiscono è rinnovamento! Spulciando tra le varie definizioni possiamo giungere alla conclusione che rinnovamento è l’atto del cambiare qualcosa al fine di migliorarlo, di renderlo attuale. A sua volta questo implica concetti come miglioramento e ammodernamento che ben si sposano con l’antitetico tradizione. Tutto ciò per dire che questa lotta continua tra pizzaioli di scuole di pensiero diverse è tutta… fuffa! Un modo come un altro per far parlare di sé. Strategia? Marketing? Sicuramente, ma a mio avviso anche tanta ignoranza da ambo le parti.
La pizza è senza dubbio un cibo cult della nostra civiltà e come tale va rispettato e preservato da atti vandalici. Ma, come in tutte le cose, in medio stat virtus. Ci sono delle fondamenta imprescindibili, senza le quali un prodotto non merita di essere definito pizza, e sulle quali sono in prima linea la più convinta talebana. E queste possono a mio avviso contarsi sulle dita di una mano.
Fin dagli albori della sua nascita ci sono delle costanti rimaste immutate nei secoli, come gli ingredienti base senza i quali una pizza non esisterebbe ovvero farina, acqua, sale e lievito. Dati questi quattro elementi tutto il resto è noia. Trovo io per prima una blasfemia, ad esempio, definire pizza un impasto che vede l’aggiunta di uova o burro, perché, fermo restando che possa essere squisito, non è una pizza.
Ma trovo altrettanto svilente aver cercato negli anni passati di intrappolare la pizza in un disciplinare: ammirevole il tentativo di dare una dignità quasi legislativa al prodotto ma totalmente fallimentare il risultato. Ma come? L’esempio per antonomasia di artigianalità, risultato dell’arte che esperti pizzaioli possiedono nelle loro mani, sottomessa al rispetto di misure, centimetri e diametri che sanno più di industriale e non di artigianale. Non ho mai capito come si potesse valutare una sedicente pizza “verace” non tanto per la sua qualità, quanto per il suo ferreo processo produttivo legato a determinate tecniche assolute e al risultato più che estetico… geometrico!
Ed evidentemente come me l’hanno pensata gli stessi pizzaioli, molti dei quali si sono distaccati dal pragmatismo vigente e hanno deciso di rinnovare il loro prodotto. Da questo momento in poi si apre un mondo, un mondo fatto di studi di nuovi impasti, nuove tecniche, nuove farine. Si è capito che la pizza è una base definita nelle sue caratteristiche standard ma che cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia.
O meglio, cambia ma senza nulla togliere alla sacralità insita in questo cibo degli dei. Non esiste una pizza migliore di un’altra né se ci si riferisce a impasti del passato né a quelli più futuristici e contemporanei. Ciò che importa è il non essere ciecamente fedeli all’uno o all’altro trend per pura ignoranza o per strategie di marketing. Quello che bisogna preservare è la memoria storica, che permette di innovare e affrontare il futuro con maggiore consapevolezza e esperienza.
Mi piacerebbe un mondo pizza senza muri divisori, senza barriere culturali né dicotomie senza senso ma dove il vecchio e il nuovo coesistano rispettosi l’uno dell’altro e consapevoli delle loro rispettive personalità. Il cambiamento non deve far paura, è insito nella storia dell’uomo. Eraclito diceva che nessun uomo si bagna mai due volte nello stesso fiume perché l’uomo come il fiume sono in costante divenire.
Perciò smettiamola di disquisire con tanta saccenza su argomenti senza fondamento e pensiamo tutti a rendere omaggio alla pizza guardando sì al suo aspetto secolare, ma sempre chini sul pezzo, adattando il prodotto, vestendolo di modernità con tutte le armi che la conoscenza ci mette a disposizione.
E, a proposito di antichità e passato, Tacito nei suoi annali diceva: “Tutte le cose che ora crediamo antichissime un tempo furono nuove”.
Buona pizza a tutti.