Maturazione della Pizza: che cos’è realmente?

Andiamo nel dettaglio parlando di alcuni processi che coinvolgono la realizzazione di una pizza

Rubrica di Filippo Melillo — 2 mesi fa

Margherita (Franco Gallifuoco, Pendino, Napoli)

Negli ultimi anni è in atto una vera e propria (e triste) “guerra” tra alcuni pizzaioli per tentare di dimostrare che il loro prodotto è quello più “digeribile”. Spesso e volentieri, però, il termine digeribilità viene associato soltanto al numero di ore di maturazione e lievitazione dell’impasto, riducendo il tutto a un confronto solamente numerico e quindi piuttosto aleatorio e poco indicativo. In genere si dice che un prodotto è “digeribile” quanto più le sue macro componenti sono scisse nelle loro componenti native di base.
Facciamo un esempio concreto: una pizza è tanto più digeribile quanto più i suoi amidi sono scissi nei loro monomeri di base (glucosio o più precisamente maltosio che sarà successivamente scisso dai lieviti e utilizzato per le proprie funzioni metaboliche). Va da sé che quindi, dalla “maturazione”, si cerchi proprio questo genere di risultato ovvero la scissione di grosse macromolecole in molecole nettamente più piccole, per essere più facili da metabolizzare per il corredo enzimatico del nostro organismo.

La credenza popolare invece è un’altra: diamo all’impasto un numero molto grande di ore a disposizione ad una temperatura piuttosto bassa, al fine di promuovere l’attività enzimatica delle proteasi e delle amilasi ma fermando la fermentazione dei lieviti (e del resto della flora microbica fermentativa).

Siamo sicuri funzioni proprio così? Mettetevi comodi, quella che segue è una spiegazione piuttosto tecnica di quella che accade, anche perché se uno vuole approfondire l’argomento, c’è bisogno di un certo livello di dettaglio: a fine articolo troverete ulteriori considerazioni in termini più generali.

Serve spiegare innanzitutto come agiscono gli enzimi degradativi della farina e perché la loro azione, in fin dei conti, non aumenti (in maniera significativa) la digeribilità del prodotto (almeno in impasti classici). Amilasi è un gruppo di proteine appartenente alla classe delle idrolasi, ovvero quelle che rompono i legami chimici tramite idrolisi. Quelle che consideriamo in questo articolo sono le amilasi di tipo α (quelle che possediamo anche noi umani nel nostro corredo enzimatico) e sono deputate alla scissione dei legami 1-4α D- glicosidici; ma anche le amilasi di tipo β (esclusive delle piante) che invece scindono fondamentalmente lo stesso legame ma con rilascio di prodotti in configurazione β e sono quelle che generalmente degradano le grosse molecole di amido (non in forma granulare) producendo non piccole molecole o monomeri ma catene glicosidiche un po’ più grandi chiamate Destrine (che saranno a loro volta idrolizzate dalle amilasi α).

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Proteasi è una classe di proteine infinitamente vasta che, come suggerisce il nome, va a degradare proteine più o meno complesse agendo su uno o più legami che compongono le stesse (le proteine sono catene aminoacidiche che hanno conformazioni particolari che sono strettamente correlate alla loro funzione). Le proteine coinvolte nella “maturazione” sono tante ma generalmente ci riferiamo a disolfuro isomerasi o similari. Tali proteine agiscono sulla componente proteica non solubile in acqua, quindi sulle prolamine (gliadine) e sulle gluteline (glutenine). Queste due proteine sono le responsabili della formazione del glutine, struttura formata tramite agglutinazione di proteine insolubili in acqua che formano il classico reticolo che chiamiamo “maglia glutinica”, responsabile della stabilità dell’impasto e della sua capacità di trattenere i gas prodotti dalla fermentazione.

Questi enzimi lavorano in diversi range di temperature, pH, umidità ben definiti. Potremmo dire pertanto che una volta calibrata la tipologia di farina da utilizzare, l’idratazione, la quantità di lievito, la temperatura; questo processo degradativo è bello che fatto? Non proprio!

La verità è che i processi di fermentazione e di “maturazione” si affiancano, anche a temperature basse. Non è possibile separare in modo efficiente i due meccanismi (in parte è possibile farlo solo con l’autolisi, che non prevede lievito nella prima parte del procedimento). La verità è che anche a temperature controllate, seppur molto basse, i due processi vanno avanti in maniera non discriminabile quantitativamente e non è possibile controllare in maniera precisa ed analitica l’andamento di un processo rispetto all’altro.

Fatta questa enorme premessa, ora sfatiamo un po’ il mito: perché la maturazione non rende un impasto significativamente più digeribile? La risposta è davvero molto più semplice di quello che si possa credere: perché semplicemente le frazioni di carboidrati (amidi) e di proteine disponibili per essere degradate sono minime.
Per digeribilità ci riferiamo di più alla scissione degli amidi, piuttosto che delle proteine la cui scissione migliora semplicemente le proprietà fisiche dell’impasto di tenacia ed estensibilità. Il problema della scarsa digestione del glutine è perlopiù un problema di cottura, ma questo è tutt’altro argomento.

Esaminiamo la componente glucidica della farina allora. La farina in generale ha una componente glucidica di circa il 70%, la cui maggior parte è composta da amidi. Gli amidi sono formati da due unità fondamentali: l’amilosio e l’amilopectina (che a loro volta sono polimeri di glucosio che differiscono tra loro per la disposizione dei legami chimici). L’amido è conservato sotto forma di grossi granuli che non sono attaccabili normalmente dalle amilasi. La frazione di amido “attaccabile” va dal 6 all’8% del totale. Questa frazione è ricavata meccanicamente dalla molitura, in cui questi granuli vengono frantumati completamente oppure in parte, e quindi mettono a disposizione siti in cui gli enzimi possono svolgere il loro lavoro di scissione, ma ribadiamo che la loro frazione è davvero minima.

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Questo è il motivo per cui farine più lavorate (e quindi più macinate) tendono ad avere tempi di lievitazione più brevi ed una lievitazione in generale più efficiente nel breve periodo. Un’altra frazione attaccabile si palesa durante la cottura, in cui i granuli di amido tendono a “gelificare” e l’amilosio tende a separarsi dall’amilopectina mettendo a disposizione siti di attacco per gli enzimi. Questo però è un processo relativo alla cottura ed ha il suo esaurimento intorno ai 65°C, temperatura in cui tutti gli enzimi cominciano a denaturarsi e perdere la loro funzione catalitica.

Generalmente, parlando di impasti diretti semplici, in cui tutti i processi avvengono contemporaneamente: un impasto con 8 ore a temperatura ambiente ha pressoché la stessa digeribilità di un impasto con 24 ore a temperatura controllata (considerando una pizza napoletana classica con farina di media forza).

Ma la maturazione è quindi inutile?

Assolutamente no, ma è giusto svincolarsi (almeno in parte) dall’idea che la maturazione sia sinonimo di aumentata digeribilità, perché è vero solo in piccolissima parte.
La maturazione ha una funzione importantissima nello sviluppo di aromi, in quanto in un periodo medio lungo aumenta la quantità di acidi, sia per via dell’azione di alcuni bacilli presenti normalmente sulla farina (quelli che si sviluppano in maniera maggioritaria quando realizziamo la pasta madre acida), sia indirettamente per via della lievitazione, che produce CO2 che a sua volta può produrre acidi tipo succinato o acido acetico ricavato dall’ossidazione dell’etanolo prodotto dal lievito di birra. Inoltre la maturazione ha una importantissima funzione in fase di cottura, in quanto alcuni prodotti della scissione delle proteine e degli amidi sono deputati nella Reazione di Maillard che è un misto di processi che avvengono in cottura che danno il classico colore ed odore caratteristico del prodotto finale.

Ovviamente tali considerazioni sono state fatte e sperimentate tenendo in considerazione impasti “standard” diretti in cui i processi fermentativi sono affiancati a quelli degradativi senza considerare l’utilizzo di farine più particolari che necessitano di trattamenti e tempi più lunghi (per far avvenire gli stessi processi), variazioni del pH tramite pre-fermenti o lievito madre, idratazione. Se volete saperne di più sulle farine, potete partire da questo articolo dedicato alle tipologie di farine e loro proprietà.

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